PARIDE LEPORACE, LA PASSIONE CIVILE

Al vecchio palazzo di Radicena si spengono le luci. La musica segue i volti dei giudici uccisi. Gli anni volati via e con essi le nostre speranze, che terrore di Stato e di mafia, estremismi e logge hanno dissolto. Le musiche di tenebra diventano chitarra hard rock, mentre gocce di inquietante sangue animato, scendono, mentre Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vivi e poi spezzati da un’onda d’urto, e le isterie televisive di Toto Cuffaro svaniscono coperte da una tendina di sangue grafico. Il letto di cemento della Palermo – Capaci di maggio e il piazzale della chiusa via d’Amelio di una straniante primavera estete di sangue 1992 si mischiano alle parole di Povera Patria di Battiato. Giudici uccisi da “Gente infame che non sa cos’è il pudore”, ma vivi nei sospiri di una sala dove tra poco Paride Leporace, direttore di giornale militante, parlerà, e nei versi strazianti di Battiato: “Ma non vi danno dispiacere / quei corpi in terra senza più calore?”, o nella poesia bruciante di Ascanio Celestini: “Ricordate i morti, ma ricordateli vivi.” “Toghe rosso sangue” doveva chiamarsi “Cadaveri eccellenti”, ma il nuovo titolo, scelto dall’editore, rende l’idea del sacrificio che ventisei giudici, più uno mai ritrovato ed escluso dagli elenchi ufficiali dei martiri, hanno offerto a questo Paese. Un primato tristissimo, nell’intero orizzonte occidentale. Un romanzo di sangue lungo ventisei esistenze. Il Direttore risponde alle domande di tutti, mostra senza filtri la sua commozione e il senso profondo di tornare in Calabria, tra i giovani dell’Associazione Mammalucco e di Ammazzateci tutti. Ragazzi che ricordano i nomi degli “angeli di scorta”, e di giudici, come Agostino Pianta, o “il giudice ragazzino”, Rosario Livatino, giustiziato a Favara, o dell’unica donna, quella Francesca Morbillo, compagna di Falcone, agonizzante in auto subito dopo l’esplosione di Capaci. Uomini e donne dello Stato uccisi da mani diverse, ormai cancellati dalla nostra memoria.


Che metodo ha scelto in “Toghe rosso sangue” per la ricostruzione dei drammi?

Sono un cronista, con l’attitudine a raccontare storie. Ecco, queste sono ventisette storie di magistrati uccisi, narrate con tecnica cinematografica, frutto del mio vissuto e della mia formazione, e, inconsapevolmente secondo un canone che definiscono “new italian epic”, che parte dalle vicende storiche per narrare l’attualità.

Esiste una continuità della violenza?

Oggi non si usano più autobomba e attentati. Esistono condizioni diverse, e torna attuale la lezione del giudice antagonista di un giovanissimo Falcone: “Riempitelo di carte”. Ecco, quella frase ritorna attuale.

Nel suo libro, sono tante le storie e i volti dei giudici uccisi. A quale pensa istintivamente?

Mi viene in mente la storia di Adinolfi, perché è un caso aperto, rimasto fuori anche dal manifesto ufficiale dell’Associazione Nazionale Magistrati. Mi colpisce che sia rimasto privo anche di questo riconoscimento, e che i familiari della vittima non abbiano un luogo di sepoltura.

Politica contro Magistratura.

C’è un blocco trasversale partitico, con l’evidente eccezione di Di Pietro, che tende a liquidare l’obbligatorietà dell’azione penale. In più, all’interno della stessa magistratura, trovo da parte di alcuni, una pericolosa normalizzazione che tende ad escludere alcuni colleghi, che vengono isolati, semplicemente perché non funzionali al potere politico.

Quei giudici sono stati servitori di quale Stato?

Lo furono secondo regole proprie di un potere autonomo e indipendente, ma la regola di Montesquieu non piace. Oggi si cerca di legare la Magistratura a un potere politico e un costume che sono espressione di una parte della popolazione che non vuole regole.

Si dice che al Sud manchi una vera società civile. Eppure, nonostante tutto c’è ancora chi ha sete di giustizia…

È carne viva del nostro Meridione. Per lunghi anni troppi magistrati hanno guardato solo verso alcuni reati. In questo senso parlerei di una giustizia inespressa, nel campo del Lavoro e del risarcimento civile, così come in quello del diritto penale, troppo spesso senza giustizia. Sì, in questo senso direi che c’è grande sete di giustizia: è una ferita aperta, ed occorre una traversata nel deserto per ottenerla.

Contro le mafie ha senso fare rete?

Sono qui stasera, a Taurianova, grazie ai Mammalucchi, incontrati su Facebook. E così sarà per le presentazioni dei prossimi tre mesi. C’è tutto un mondo di blog, teatri, libri, editori, creativi, autori di filmati, che creano una rete di produzione di nuovi linguaggi e saperi: un fenomeno estremamente positivo, venuto fuori dalle giornate di Genova.

In Italia ci si trova spesso a parlare di verità che non possono essere provate…

È il concetto pasoliniano di verità. Sappiamo di cosa parliamo, tra giornalisti e intellettuali.. Insisto sul fatto di essere analitici, tassonomici. Se si vuole ricomporre la verità, non si può cedere alla Teoria del Complotto. Alle ossessioni bisogna aggiungere ampiezza di documentazione e una grande passione civile. Per evitare di dire fesserie o ragionare di verità precostituite.

Come reagisce un giornalista come lei di fronte alla sparizione delle notizie?

I gruppi di opinione possono molto, collegandosi ai giornalisti sensibili alla loro causa. È un problema di gerarchia delle notizie, diffuse non si sa come, eppure diffuse. Va quindi condizionata questa gerarchia, per evitare la sparizione dei fatti.

Dopo aver diretto “Calabria Ora”, è approdato a “Il Quotidiano della Basilicata”. Ora la sua vita è tra due regioni…

Con la Calabria c’è similarità di problemi, ma anche profonde differenze. Sto scoprendo la Basilicata, una regione estremamente interessante, cosa che mi aiuta a decifrare il Sud tra grandi trasformazioni. È una fase nuova della vita, caratterizzata da un certo nomadismo esistenziale.