LUCIO SALIS, PORCA VACCA!
May 19, 2011
By Gianluca Iovine
Il ragazzone sorridente con la giacca di fustagno e la barba è cambiato. Esiliato dalla tv luccicante di “Drive In”, è ricomparso a Zelig, Lucio Salis. Un evento, anche per chi non l’aveva mai sentito in quel suo tormentone del “Cappittomihai?”, una bella maschera sarda di ironia e complicità. Quella sera in Viale Monza sul palco c’erano le rughe, il fumo, e gli occhiali, a segnare gli anni, insieme a un gusto della beffa che era rimasto lo stesso di un tempo, o forse solo incattivito da una vita avventurosa e difficile, spesa fra teatro, cabaret, musica e scrittura. L’uomo che Wikipedia bacchetta per la sua biografia romanzata come un rebelot, mezza vera e mezza falsa, ha sempre alle spalle il verde, l’arido e il mare di Sardinia, l’isola-dea dell’Eretico. Lucio, il viaggiattore da due t, ancora manipola ricordi, seduce donne, inventa nemici, trasforma i numeri, conquistandoti con iperboli e bugie, in una straordinaria e rabbiosa poetica del turpiloquio, sincero nell’insulto da ultrà della politica, e amaro sul serio, quando, buttate via le mille corazze, lascia intravedere le oscurità fragili di un uomo di cuore. Questa prima intervista di CinemaOggi parte da Lucio, e dai giorni dei films, effimeri e vividi. Prima di scrivere romanzi, in un ciak sapeva commuoverti con uno sguardo.
Lucio, Promettevi bene nel cinema. Piero Livi sembrava averlo capito meglio di ogni altro. Che personaggio era il tuo Culobianco in “Sos Laribiancos?” Era un figlio di mignotta bonario e benevolo che, prendendo esempio dal suo prete (Culobianco è il campanaro) va a letto con le compiacenti del paese e irride il federale durante un comizio, parte per una guerra non sua, ma poi nella disfatta prende in mano la situazione e salva i suoi compagni.
“Porca Vacca” racconta la Guerra. A proposito, Dove hai fatto il militare? No. Io, primo maschio di 5 fratelli, ho fatto miracoli, ma senza appoggi o raccomandazioni, per non farlo. E ci sono riuscito alla grande! Tra l’altro, scusami ma è troppo gustosa, dopo essere stato preso a Roma dai Carabinieri per diserzione, mentre mi ero trasferito giusto da Cagliari sei mesi dopo la prima visita, dov’ero stato considerato rivedibile, con un anno senza mangiare quasi nulla e sesso ad libitum, faccio la seconda visita: riformato. Io faccio un salto di due metri, e il capitano medico mi fa: “Che minchia ridi?! Chi non è buono per il re non è buono neanche per la regina!” Già. Peccato che da qualche mese andavo a letto sia con la sua giovane moglie che con la figlia 15enne… Eppure, vedi, ironia della sorte, ho fatto due film di guerra.
Com’era l’atmosfera sul set di “Porca Vacca”? Bah, Triste, direi. Insomma, era il mio primo film in assoluto e speravo, essendomi abbeverato alla greppia dei grandi, di trovare dei compagni-maestri. Invece erano tutti molto sussiegosi e superbi. Pensa che mi hanno tagliato il monologo della notte di Natale, dove ho improvvisato, d’accordo col regista Pasquale Festa Campanile. Beh, piangevano persino i tecnici e le comparse. E Pozzetto si è incazzato: “Non è il tuo film!”. E hanno tagliato via il monologo.
E tra i due film, ancora un film in costume, “Magnificat”. Cosa ti diceva Pupi Avati?
Di non litigare col fratello Antonio. Un chiacchierone bigotto che tutto sapeva lui, figùrati. Io ero uno dei quattro protagonisti, ma Antonio, con una vendetta alla Tafazzi, mi fa tagliare la voce fuori campo che mi presenta. Pessimo film, pessima compagnia. Pensa, il cestino era un panino con purea… Beh, meno male che ero conosciuto e una ragazza mi portava tutti i prodotti contadini di casa sua. Sono stato da dio. Antonio, secondo me, un po’ mi odiava, e ti credo: io avevo una bellissima ragazza di 18 anni che mi adorava, eh eh! Me l’ero portata appresso, sai, dato che mi pagavano un’elemosina. Lui era geloso forte. Poi, alla fine si è sposato una ragazza americana, e arrivederci. I fratelli Avari, così li chiamavo per sfotterli: Pupi e Abramo Avari. E poi mi ricordo una volta la mamma, nella grande villa di Todi, dove si girava, che ci porta sul set, tutta orgogliosa, una busta di mele che sembravano mezze marce: “Sono le nostre!” E io: “Si vede!” – rispondo.
Chi ti farebbe felice se ti chiamasse in un film? Eh, i Maestri: Moretti, Coppola, Spielberg, Scorsese, ma anche Benigni… che è in debito con me!
Ci vai spesso al cinema? Dove, qui?! Ma se non c’è nemmeno il barbiere!
Che film guardi, a casa tua? I classici, quelli dei miei maestri-amici, western per rilassarmi, e poi commedie…
Il tuo cult movie. Non ho dubbi: “Il Padrino”.
Il film che butteresti. Mica uno solo… Tutti quelli italioti da almeno 20 anni a oggi.
E anche stavolta ti sei fatto dei nemici. Chiudiamo con una dedica e un bello sfogo per gli amici di CinemaOggi! Guarda, io non devo nulla a nessuno. E ce ne sarebbero molte da dire… Comunque… Gente! Amate il cinema, però quello vero, che è sempre stato preveggente e pregnante. E Difendetelo, eh! Oggi non esiste più il Cinema, tranne qualche piccolo sprazzo, qui e là; il resto non è Cinema, è pessima fiction. Burlesquoni ha chiuso decine di teatri e di cinema per farne garage o supermarket, questo non dimenticatevelo mai, e se potete DENUNCIATELO!
LE INTERVISTE DI GIANLUCA IOVINE
La voce delle persone, senza filtri.
ANNA GAETANO: "MIO FRATELLO ERA UN FIGLIO UNICO"
ROMA. Il 29 ottobre non è un giorno come gli altri, per chi lo ama. È il compleanno di Rino Gaetano. Oggi ne avrebbe fatti sessanta. Un signore di mezza età. Chissà cosa avrebbe detto del Paese, lui che vedeva lontano attaccando col sorriso i luoghi comuni e Potere… Lì dove ora riposa, nella scritta di marmo che dice “Ma il cielo è sempre più blu”, i colori dei fiori si spengono sulla foto intensa, lo sguardo rivolto all’obiettivo, i pensieri verso l’orizzonte. Un cappello nero, e il viso dolce e malinconico. In basso, la piccola foto con il frac di scena. Giorni pieni, per sua sorella. Lei è lì, ha un attimo di tregua prima della troupe del Tg1, dei concerti, delle telefonate. Anna ha una voce ruvida, diretta, tradisce l’emozione, a tratti. Negli ultimi anni la fiction Rai e le parole di Antonello Venditti l’hanno ferita: Rino non è stato descritto come era realmente, e illazioni e dolore hanno spinto Anna ad armarsi di carta bollata e combattere, perché non si infangasse la memoria di Rino e della sua famiglia. Oggi avrebbe avuto sessant’anni, come se lo immagina? Come sempre: longilineo, brizzolato, ma con lo stesso spirito, perché il carattere, quello, non si cambia. Quella voce mette soggezione: risponde, ma sembra in realtà domandare il perché di tanta curiosità, in questi ultimi anni, e non magari vent’anni fa, quando Rino era rimasto con pochi veri amici. Che ragazzo era Rino Gaetano? Molto gioviale, alla mano. Un ragazzo che teneva molto alla famiglia. Eravamo solo in quattro, a Roma, perché un altro fratello, il povero Giuseppe, ce l’aveva portato via l’Asiatica. Poi sono arrivati i nipoti. Con i miei figli facciamo di tutto per mantenere vivo il ricordo di Rino. Ascoltarlo emoziona sempre di più, anno dopo anno. Lei, Anna, cosa prova quando altri artisti salgono sul palco a interpretare una sua canzone? Le solite emozioni. Mi emoziona troppo di più sentirle cantate da Rino… Poi c’è la Rino Gaetano Band, con mio figlio Alessandro, e altri bravissimi musicisti, come Federico D’Angeli, e Marco Morandi. Il figlio di Gianni Morandi ha cantato anche un inedito… Sì, gliel’ho dato io. E anche la canzone di Paolo Rossi. Anche se era incompiuta, Paolo è riuscita a renderla al meglio. Lei ha ancora parecchi inediti, quindi? Da quelle canzoni che solo lei ha potuto ascoltare, che ritratto esce di Rino? Sì, ho ancora parecchio materiale, al sicuro, ben conservato, e lo ascolterete, ma con lentezza, poco a poco, finché ci sarò io. Poi toccherà a mio figlio occuparsene. Comunque, anche in quelle canzoni c’è sempre Rino, fino in fondo. Cosa le manca di più di suo fratello? Mi manca tutto di lui, la sua presenza, i suoi modi… La voce si fa commossa, anche quando ricordiamo insieme le canzoni dedicate alla Calabria: Era rimasto calabrese, Rino, anche se Roma era la sua seconda città… Sì. Calabrese, sempre, anche nelle piccole cose. Le sue canzoni parlano spesso di Sud, e Calabria, con forza e ironia. Sì, i suoi testi dicono molte cose. Anche oggi, su tante situazioni Rino avrebbe tanto da dire… Per molti Rino era un alieno piombato in frac e ukulele a sconvolgere di ironia Sanremo 1978. Cosa ha provato a ritrovarselo al Festival, Anna? Lo sapevo già prima, molte cose me le raccontava, e ne ero stata felice. Non ho potuto raggiungerlo, i miei tre figli erano ancora piccoli, ma fu un’emozione, e non solo per il risultato. La stessa gioia provata a sentire Paolo Rossi, cantare una sua canzone, quasi trent’anni dopo. Per molti, canzoni come “La Ballata di Renzo” sono vere e proprie profezie. Rino guardava lontano o erano solo coincidenze? Credo che di persone come Rino ce ne siano una ogni mille. Non so se fosse un mago, o un profeta, ma so che certe cose se le sentiva dentro, erano frutto della sua sensibilità. Lei non si è mai sottratta all’incontro con fan e media. Non le costa esporre i suoi sentimenti così? No, mi fa solo piacere. Non mi costa nulla. A quale canzone si sente più legata? A tutte. Però ”Mio fratello è figlio unico” la associo a lui. Perché mio fratello era speciale. Anna, come pensa sia più giusto ricordare Rino? Così, semplicemente. Voglio che Rino sia nel cuore di tutti ogni giorno. Ci salutiamo. Anna può riprendere a sistemare la tomba al Verano. Verranno in tanti, qui, da tutta Italia, a lasciare parole e fiori. In un rito colorato e malinconico come il Cielo di Rino.
RENATO BELLOFIORE, IL SINDACO DI UNA CITTA' DIFFICILE
GIOIA TAURO La sala dedicata ad Antonino Scopelliti si è svuotata. Per una volta i toni polemici hanno ceduto il passo al senso di collaborazione. Cgil e Funzione Pubblica hanno teso la mano alle istituzioni. Con il sindaco Renato Bellofiore discutono insieme della crisi, che racconta di un’economia azzerata e al tempo stesso di una emergenza primaria per duecento famiglie. Dissesto finanziario e idrogeologico sembrano essere i due volti di uno stesso problema. Le casse di Gioia prosciugate, in un momento già di per se stesso difficile, e l’urgenza di chi ha perso tutto e chiede aiuto alle istituzioni si mischiano. La squadra della Protezione civile ha le tute gialle ancora sporche di fango. Il comandante Enzo Bonio, con Pietro Iannello e Jessica Ghelli, dei Rancers di Gioia riferisce al primo cittadino delle ingiuste critiche ai soccorsi, e aggiorna sulle operazioni di sicurezza. Un cittadino di Palmi offre appoggio, si parla della raccolta fondi per gli sfollati, Antonio Crispi segretario nazionale della Funzione Pubblica Cgil consiglia di parlare della crisi gioiese all’Anci. Dai cittadini, arrivano le prime offerte di case sfitte per offrire un riparo ai gioiesi colpiti dall’alluvione. Il sindaco si siede e risponde, senza barriere, partendo da una valutazione della passata gestione che analizza in primis l’aspetto tecnico: “La mia è una valutazione economica e finanziaria: oggettivamente il Comune ha debiti enormi e questa amministrazione lavora in emergenza, visto che in bilancio sono accertati 22 milioni di euro di passivo.” La soluzione però esiste, ci dice: “Ci vuole oculatezza e taglio della spesa pubblica superflua, a partire dalle esternalizzazioni dei servizi”. Il rientro si potrà avere, responsabilmente: “Spingendo sulla riscossione dei tributi, ad esempio”. Dal dissesto dei conti a quello del territorio. Come lavorerà sul fronte della prevenzione, per evitare il ripetersi di situazioni così drammatiche? “Intendo sbloccare il milione già stanziato dalla Regione a suo tempo per risanare il Budello; la procedura per farlo è in fase di aggiudicazione. Una cosa non risolutiva, certo, ma per questo territorio una boccata d’ossigeno”. I vecchi progetti di risanamento ambientale sono ancora validi, perché semplicemente mai usati: “Si tratta di tirarli fuori dal cassetto, e procedere alla riforestazione, alla messa in sicurezza di argini e fiumare”. E dell’abusivismo, cosa ci dice? “Proprio le passate amministrazioni, da cui provengono anche le accuse di questi giorni, concedevano le autorizzazioni. Io mi impegno a combattere l’abusivismo, da me nemmeno un’autorizzazione”. Il sindaco è sereno e risoluto, anche se riflette a voce alta sul momento: “Gioia Tauro è tra i pochi centri a offrire ancora lavoro. Va tutelata, perché se dovesse venir meno, gli effetti sarebbero forti su tutta la Piana”. Le accuse sul ritardo nei soccorsi restano voci, cui Bellofiore oppone documenti: “La prego, guardi qui. Il fax dice il vero, il resto sono falsità usate per strumentalizzare. Il comunicato della Prefettura indica le 12:57. A otto minuti dall’allerta, alle 13:05 del 2 novembre, la comunicazione di pericolo era già stata inviata dal mio ufficio a Prefettura, Protezione Civile e forze di polizia. Fino alle 17,00 abbiamo patito gli effetti del disastro, ma l’attivazione è stata immediata, altrimenti avremmo avuto delle vittime.” E del grande sforzo di tutta una comunità, è prova, la sera stessa, il ricovero di duecento famiglie, che in serata hanno almeno trovato un letto e un pasto caldo in albergo. Gli attacchi alle banche sono stati lanciati più volte durante l’assemblea pubblica. Bellofiore preferisce dire la sua senza attaccare gratuitamente: “Può capire che enorme mole di lavoro ci sia, e ci spiace molto che in questo dramma la Banca Popolare del Mezzogiorno, nel pieno di un problema di ordine pubblico e sanitario, continui imperterrita nella sospensione del servizio tesoreria. Ecco, dalle banche ci saremmo aspettati una risposta diversa, visto che da parte nostra c’è stata addirittura la disponibilità a rivedere i tassi del contratto originario in senso a loro più favorevole”. Il sindaco ci saluta, la difficoltà del momento non gli fa paura. Ha voglia di fare.
TIBERIO MAVRICI, IL POETA DELLE IMMAGINI
MILANO Una fotografia è il filo per rimanere aggrappati alla terra. In Tiberio Mavrici, fotografo taurianovese da anni a Milano, quel filo resta ben saldo. I titoli dei suoi progetti, così semplici, mentono sullo sguardo potente di “Cartoline da Milano” e “Duomo Street”, dove la quotidianità milanese non sfugge all’obiettivo, che la legge in controluce, nel volto di un venditore di fiori, riconsegnato a una dimensione intima, umana; o come la Galleria e il Duomo di notte, ammantati di magia. “Mistero della fede” tinge di misticismo luoghi che hanno smarrito la loro storia, lungo un itinerario sotterraneo, verso una Milano poco raccontata. L’appartenenza alla Piana di Gioia Tauro per questo ricercatore sociale dell’attimo, appassionato di biciclette e di persone, riemerge forte, tra i riti pagani di Milano, e la sacralità dell’Affruntata e della Calabria eterna, che vive in chi viaggia, profumata di terra e pietra, sincera e arida. Ci ha spiegato l’abbandono, Tiberio, e la vita lombarda, su quella bicicletta che torna in molti suoi scatti. “Non vivo più di fotografia, già da qualche anno”, ci dice, con voce timida e commossa, “crisi dell’editoria e avvento del digitale hanno reso tutto difficile in un Paese già privo di cultura fotografica. In Francia, in Germania, sarebbe diverso. La vivo come una grande passione, ma lavoro in università. Collaboro con alcuni giornali, faccio progetti di lungo respiro, lavoro a ideare mostre. Non potevo gestire gli umori dei foto editors e delle agenzie.” Mavrici ci racconta di quando il Corriere pagava una foto in bianco e nero 90mila e 120mila a colori, contro i sette euro di oggi. “Amo il reportage sociale, raccontare storie. E in Italia non c’è mercato”, dice. Ha il cuore in Calabria, e nella sua “’A Ffruntata” c’è Spirito, e un lavoro durato cinque anni, per una fotografia vissuta come documento. “Da tre anni lavoro a un’Affruntata a colori, che esca dal folkloristico per tornare immagine intima, spirituale. Ho ceduto anch’io al digitale, ma salvando la mentalità della pellicola. Non guardo le foto che faccio, perchè la foto conservi certe sensazioni”. “Ganna rossa” ha richiesto quattro anni di sforzi per realizzare in immagini lo straordinario racconto d’amore del giornalista scrittore rizziconese Antonino Catananti. “Da piccolo andavo in bicicletta, amo farlo ancora. Mi affascinava il suo uso quotidiano, e allora ecco questo progetto da Milano a Parigi, da Copenhagen a Berlino…” Milano, presente nella vita di Tiberio come la sua Taurianova, è nel progetto “Le porte di Milano”, ma già un futuro lavoro sul “Senso dell’azzurro” lo spinge altrove. Tiberio amava i grandi fotografi francesi e per entrare in Scuola Civica a Milano lasciò Taurianova, dove era nato nel 1968, e rimase fino al 1994. “In Calabria lavoravo nel negozio di famiglia, fotografavo matrimoni e cronaca, ma volevo di più. Lasciare terra e affetti non fu facile, e per pagarmi le scuole serali, collaborai con Il Corriere, La Repubblica, Il Giorno; con un’amica facevamo foto ai matrimoni, poi sono venuti i primi progetti.” La concorrenza e il digitale l’hanno spinto a sperimentare la fotografia sociale, come autore di progetti: “Ho conosciuto un missionario catanese, don Carmelo La Rosa. In Albania abbiamo tenuto corsi di fotografia per ragazzi e progetti sulla realtà albanese.” Si emoziona parlando di “Cuore a sud”, teatro- canzone con Lello Naso e Nino Forestieri, sui tanti ragazzi che lasciano la Calabria, fotografati senza filtri, davanti casa: “Mi sono rivisto, in quei volti di ragazzi che lasciano la Piana per studiare e lavorare, soffrendo in silenzio. Quando torno a Pasqua, ci sto male. Poi vedo altri giovani sui macchinoni, il mare abbandonato… Amaro e dolce si confondono. Restano i ricordi, i nipoti, le fotografie; eppure, mi sento fortemente calabrese, non dimentico questa terra bella e aspra come il suo Monte, e i volti di donna olivastri, dalla bellezza acerba, che resta in mente.”
GIANLUCA IOVINE
GIANLUCA IOVINE
PARIDE LEPORACE, LA PASSIONE CIVILE
Al vecchio palazzo di Radicena si spengono le luci. La musica segue i volti dei giudici uccisi. Gli anni volati via e con essi le nostre speranze, che terrore di Stato e di mafia, estremismi e logge hanno dissolto. Le musiche di tenebra diventano chitarra hard rock, mentre gocce di inquietante sangue animato, scendono, mentre Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vivi e poi spezzati da un’onda d’urto, e le isterie televisive di Toto Cuffaro svaniscono coperte da una tendina di sangue grafico. Il letto di cemento della Palermo – Capaci di maggio e il piazzale della chiusa via d’Amelio di una straniante primavera estete di sangue 1992 si mischiano alle parole di Povera Patria di Battiato. Giudici uccisi da “Gente infame che non sa cos’è il pudore”, ma vivi nei sospiri di una sala dove tra poco Paride Leporace, direttore di giornale militante, parlerà, e nei versi strazianti di Battiato: “Ma non vi danno dispiacere / quei corpi in terra senza più calore?”, o nella poesia bruciante di Ascanio Celestini: “Ricordate i morti, ma ricordateli vivi.” “Toghe rosso sangue” doveva chiamarsi “Cadaveri eccellenti”, ma il nuovo titolo, scelto dall’editore, rende l’idea del sacrificio che ventisei giudici, più uno mai ritrovato ed escluso dagli elenchi ufficiali dei martiri, hanno offerto a questo Paese. Un primato tristissimo, nell’intero orizzonte occidentale. Un romanzo di sangue lungo ventisei esistenze. Il Direttore risponde alle domande di tutti, mostra senza filtri la sua commozione e il senso profondo di tornare in Calabria, tra i giovani dell’Associazione Mammalucco e di Ammazzateci tutti. Ragazzi che ricordano i nomi degli “angeli di scorta”, e di giudici, come Agostino Pianta, o “il giudice ragazzino”, Rosario Livatino, giustiziato a Favara, o dell’unica donna, quella Francesca Morbillo, compagna di Falcone, agonizzante in auto subito dopo l’esplosione di Capaci. Uomini e donne dello Stato uccisi da mani diverse, ormai cancellati dalla nostra memoria.
Che metodo ha scelto in “Toghe rosso sangue” per la ricostruzione dei drammi?
Sono un cronista, con l’attitudine a raccontare storie. Ecco, queste sono ventisette storie di magistrati uccisi, narrate con tecnica cinematografica, frutto del mio vissuto e della mia formazione, e, inconsapevolmente secondo un canone che definiscono “new italian epic”, che parte dalle vicende storiche per narrare l’attualità.
Esiste una continuità della violenza?
Oggi non si usano più autobomba e attentati. Esistono condizioni diverse, e torna attuale la lezione del giudice antagonista di un giovanissimo Falcone: “Riempitelo di carte”. Ecco, quella frase ritorna attuale.
Nel suo libro, sono tante le storie e i volti dei giudici uccisi. A quale pensa istintivamente?
Mi viene in mente la storia di Adinolfi, perché è un caso aperto, rimasto fuori anche dal manifesto ufficiale dell’Associazione Nazionale Magistrati. Mi colpisce che sia rimasto privo anche di questo riconoscimento, e che i familiari della vittima non abbiano un luogo di sepoltura.
Politica contro Magistratura.
C’è un blocco trasversale partitico, con l’evidente eccezione di Di Pietro, che tende a liquidare l’obbligatorietà dell’azione penale. In più, all’interno della stessa magistratura, trovo da parte di alcuni, una pericolosa normalizzazione che tende ad escludere alcuni colleghi, che vengono isolati, semplicemente perché non funzionali al potere politico.
Quei giudici sono stati servitori di quale Stato?
Lo furono secondo regole proprie di un potere autonomo e indipendente, ma la regola di Montesquieu non piace. Oggi si cerca di legare la Magistratura a un potere politico e un costume che sono espressione di una parte della popolazione che non vuole regole.
Si dice che al Sud manchi una vera società civile. Eppure, nonostante tutto c’è ancora chi ha sete di giustizia…
È carne viva del nostro Meridione. Per lunghi anni troppi magistrati hanno guardato solo verso alcuni reati. In questo senso parlerei di una giustizia inespressa, nel campo del Lavoro e del risarcimento civile, così come in quello del diritto penale, troppo spesso senza giustizia. Sì, in questo senso direi che c’è grande sete di giustizia: è una ferita aperta, ed occorre una traversata nel deserto per ottenerla.
Contro le mafie ha senso fare rete?
Sono qui stasera, a Taurianova, grazie ai Mammalucchi, incontrati su Facebook. E così sarà per le presentazioni dei prossimi tre mesi. C’è tutto un mondo di blog, teatri, libri, editori, creativi, autori di filmati, che creano una rete di produzione di nuovi linguaggi e saperi: un fenomeno estremamente positivo, venuto fuori dalle giornate di Genova.
In Italia ci si trova spesso a parlare di verità che non possono essere provate…
È il concetto pasoliniano di verità. Sappiamo di cosa parliamo, tra giornalisti e intellettuali.. Insisto sul fatto di essere analitici, tassonomici. Se si vuole ricomporre la verità, non si può cedere alla Teoria del Complotto. Alle ossessioni bisogna aggiungere ampiezza di documentazione e una grande passione civile. Per evitare di dire fesserie o ragionare di verità precostituite.
Come reagisce un giornalista come lei di fronte alla sparizione delle notizie?
I gruppi di opinione possono molto, collegandosi ai giornalisti sensibili alla loro causa. È un problema di gerarchia delle notizie, diffuse non si sa come, eppure diffuse. Va quindi condizionata questa gerarchia, per evitare la sparizione dei fatti.
Dopo aver diretto “Calabria Ora”, è approdato a “Il Quotidiano della Basilicata”. Ora la sua vita è tra due regioni…
Con la Calabria c’è similarità di problemi, ma anche profonde differenze. Sto scoprendo la Basilicata, una regione estremamente interessante, cosa che mi aiuta a decifrare il Sud tra grandi trasformazioni. È una fase nuova della vita, caratterizzata da un certo nomadismo esistenziale.
Che metodo ha scelto in “Toghe rosso sangue” per la ricostruzione dei drammi?
Sono un cronista, con l’attitudine a raccontare storie. Ecco, queste sono ventisette storie di magistrati uccisi, narrate con tecnica cinematografica, frutto del mio vissuto e della mia formazione, e, inconsapevolmente secondo un canone che definiscono “new italian epic”, che parte dalle vicende storiche per narrare l’attualità.
Esiste una continuità della violenza?
Oggi non si usano più autobomba e attentati. Esistono condizioni diverse, e torna attuale la lezione del giudice antagonista di un giovanissimo Falcone: “Riempitelo di carte”. Ecco, quella frase ritorna attuale.
Nel suo libro, sono tante le storie e i volti dei giudici uccisi. A quale pensa istintivamente?
Mi viene in mente la storia di Adinolfi, perché è un caso aperto, rimasto fuori anche dal manifesto ufficiale dell’Associazione Nazionale Magistrati. Mi colpisce che sia rimasto privo anche di questo riconoscimento, e che i familiari della vittima non abbiano un luogo di sepoltura.
Politica contro Magistratura.
C’è un blocco trasversale partitico, con l’evidente eccezione di Di Pietro, che tende a liquidare l’obbligatorietà dell’azione penale. In più, all’interno della stessa magistratura, trovo da parte di alcuni, una pericolosa normalizzazione che tende ad escludere alcuni colleghi, che vengono isolati, semplicemente perché non funzionali al potere politico.
Quei giudici sono stati servitori di quale Stato?
Lo furono secondo regole proprie di un potere autonomo e indipendente, ma la regola di Montesquieu non piace. Oggi si cerca di legare la Magistratura a un potere politico e un costume che sono espressione di una parte della popolazione che non vuole regole.
Si dice che al Sud manchi una vera società civile. Eppure, nonostante tutto c’è ancora chi ha sete di giustizia…
È carne viva del nostro Meridione. Per lunghi anni troppi magistrati hanno guardato solo verso alcuni reati. In questo senso parlerei di una giustizia inespressa, nel campo del Lavoro e del risarcimento civile, così come in quello del diritto penale, troppo spesso senza giustizia. Sì, in questo senso direi che c’è grande sete di giustizia: è una ferita aperta, ed occorre una traversata nel deserto per ottenerla.
Contro le mafie ha senso fare rete?
Sono qui stasera, a Taurianova, grazie ai Mammalucchi, incontrati su Facebook. E così sarà per le presentazioni dei prossimi tre mesi. C’è tutto un mondo di blog, teatri, libri, editori, creativi, autori di filmati, che creano una rete di produzione di nuovi linguaggi e saperi: un fenomeno estremamente positivo, venuto fuori dalle giornate di Genova.
In Italia ci si trova spesso a parlare di verità che non possono essere provate…
È il concetto pasoliniano di verità. Sappiamo di cosa parliamo, tra giornalisti e intellettuali.. Insisto sul fatto di essere analitici, tassonomici. Se si vuole ricomporre la verità, non si può cedere alla Teoria del Complotto. Alle ossessioni bisogna aggiungere ampiezza di documentazione e una grande passione civile. Per evitare di dire fesserie o ragionare di verità precostituite.
Come reagisce un giornalista come lei di fronte alla sparizione delle notizie?
I gruppi di opinione possono molto, collegandosi ai giornalisti sensibili alla loro causa. È un problema di gerarchia delle notizie, diffuse non si sa come, eppure diffuse. Va quindi condizionata questa gerarchia, per evitare la sparizione dei fatti.
Dopo aver diretto “Calabria Ora”, è approdato a “Il Quotidiano della Basilicata”. Ora la sua vita è tra due regioni…
Con la Calabria c’è similarità di problemi, ma anche profonde differenze. Sto scoprendo la Basilicata, una regione estremamente interessante, cosa che mi aiuta a decifrare il Sud tra grandi trasformazioni. È una fase nuova della vita, caratterizzata da un certo nomadismo esistenziale.
VINCENZO ALEXANDER CIRILLO, IL VESUVIO DENTRO
Vive la notte. Dorme pochissimo, perchè già pensa al giorno che verrà, rincorrendo un continuo domani, senza mai volgere le spalle al passato. Un giovane uomo che cerca se stesso negli altri. Così mi appare Vincenzo Alexander Cirillo. Uno sguardo inquieto, in bilico sul ponte sospeso tra i sogni e la vita, senza paura. Vincenzo che copre i suoi sentimenti per difenderli, osserva e ascolta; fa politica, ma senza urlare, con autoironia; così come recita senza strafare, portando in scena se stesso. Gli occhiali da sole non lo schermano mai abbastanza, timido davanti al cartoccio di fritturine mangiate distrattamente, già pensando a quale emozione vivere un attimo dopo. Sarà forse questa eterna inquietudine, che lo ha portato da un mondo all’altro in politica, e che lo ha spinto negli States, e poi dall’università al set, e dalla scrivania ancora alla tv, dove Vincenzo Cirillo è per tutti Vincenzo Alexander. Sbircia le domande, vuole iniziare subito, e allora si parte, da quel Vesuvio che sovrasta la sua Trecase, dove per tanti anni è stato consigliere.
Che sensazione ti dà vedere il Vesuvio così da vicino?
Non ho mai visto il Vesuvio come un pericolo; è piuttosto un paesaggio ameno, che mi appare da dove vivo, sulle pendici del vulcano: un'immensa distesa di verde che cambia colore tutto l'anno, e che in determinati periodi ha sfumature che vanno dal verde al giallo della fioritura delle ginestre, o a quel rossiccio tipico dell'autunno.
Eppure omicidi di camorra e abusivismo edilizio caratterizzano l'hinterland vesuviano. Si può sperare di raggiungere una normalità?
Credo che la speranza di una normalità ci sia sempre. E i tempi sono cambiati. Viene sparso meno sangue, grazie alle nuove generazioni, che stanno cambiando le cose, e che piuttosto che lanciarsi nel buio di una strada senza ritorno, preferiscono lavori umili, ma onesti. Noto oggi una grande voglia di rinascere, di prendersi responsabilità.
Vincenzo sorride, aspetta la pizza, e mi racconta di una serie sul ballo, che sta finendo di girare. Presto sarà a Istanbul per un'altra lavorazione. E poi c'è il Sogno Americano...
Dovessi proprio scegliere, tra il mare di Napoli e gli Stati Uniti?
Ah, sono molto combattuto! Io con il Sogno Americano ci sono nato. Siamo sullo stesso parallelo: a Napoli siamo americani d'oltreoceano, mentre i newyorkesi sembrano napoletani tra i grattacieli.
Quando hai capito che potevi fare cinema?
Sono stati gli altri, anche le persone incontrate per caso, a farmelo capire: negli ultimi tempi soprattutto da Facebook sono nati contatti, facendomi riscoprire una passione sopita. Tutto è cominciato per caso, quando da universitario, molti anni fa, nei pressi della Rai di Napoli, a via Marconi, il produttore della Grundy mi fermò mentre ero con un mio collega. Ci disse che stava partendo una soap, e ci chiese di portare le nostre foto, per partecipare a un provino.
E così è iniziata la tua avventura in "Un posto al sole". Com'è vivere dentro una soap?
Per un ragazzo di poco più di diciotto anni, con poca esperienza sul campo, era bello. Potevo guadagnare i primi soldi, e trovarmi dall'altro lato della tv: la cosa più strana, ricordo, fu scoprire che Villa Palladini era in realtà ricreata tra le pareti di uno studio di posa. E poi lì ho incontrato Patrizio Rispo, una persona stupenda, un uomo che non è così diverso dal suo personaggio, mentre Maurizio Ajello era invece un po' più sulle sue.
Dicevamo che sogni di portare in scena una storia d'amicizia...
Sono sempre stato vocato all'amicizia. Penso che un vero amico sia una ricchezza inestimabile. Sai, ci sono cose con le quali non ci si può confrontare in famiglia; per questo ci sono gli amici veri, quelli che ti ascoltano, ti consigliano, ti sono complici e vicini, nei momenti di reale bisogno. E' vero, sogno di portare in scena una storia che mi è capitato di leggere, di grande e tormentata amicizia, "L'amico ritrovato" di Fred Uhlman.
Difficile inoltrarsi sul sentiero accidentato della politica, in piena campagna elettorale, specie se con il cuore a sinistra si intervista un candidato di destra. Ma basta mettersi in ascolto, e cercare di rispettare la giusta distanza dalle proprie opinioni.
Un giovane può credere oggi in una politica senza compropmessi?
Io ci credo, la mia lo è. Certo, è una politica più difficile, lenta, che fa venir fuori meno velocemente di un'attività fatta compromettendosi; e però questa scelta ti rende più forte, consapevole, preparato. Ho subito parechie angherie, anche da chi diceva di credere in me. Eppure quindici anni di politica con il Centrosinistra mi hanno fatto capire che non esiste ancora uno spazio vero per i giovani che come me fanno politica per passione, e non perchè eredi di qualcuno.
La vena polemica nasconde molta amarezza, e anche il timore che la scelta essere poco capita. La domanda successiva è inevitabile.
Avresti mai pensato di passare con i tuoi vecchi avversari politici del Centrodestra?
Prima, mai, ma poi Walter Veltroni mi ha convinto dell'esatto contrario. La mia opinione è che il PD sia il contenitore di una classe politica vuota, tracotante e autoreferenziale. A trentatrè anni, consigliere comunale a Trecase, già alla quarta consiliatura, pur essendo stato ancora il più votato alle scorse elezioni, sono stato messo da parte a favore di candidati di dubbia qualità, senza esperienza sul territorio.
La polemica si infiamma, ma visto che dirsi di destra o di sinistra significa condividere politiche opposte, ci viene una curiosità.
C'è un tema caldo, quello dei respingimenti dei migranti. Lo appoggi, come provvedimento? Che faresti, se fossi al Governo?
Sono prevalentemente per la solidarietà e l'accoglienza. Noi italiani siamo da sempre un popolo ospitale. Certo, inserirei delle regole piùà rigide a tutela della convivenza, magari utilizzando in certi casi il rimpatrio, ma la prima regola resta accogliere, cristianamente. Respingere significa mettere in pericolo delle vite.
Vincenzo non recita. Ci crede, e ragiona fuori dalle logiche di partito. Chissà come si stava dall'altra parte, quando il Grande Capo era Il Nemico, e così glielo chiediamo.
Cosa pensavi di Berlusconi quando eri suo avversario e cosa ne pensi invece oggi?
Prima ero diffidente. Diffidavo di tanta sicurezza, dei suoi eccessi: temevo fosse un inconcludente. Adesso trovo sia una persona coerente, che con i fatti ha risolto problemi effettivi: l'immondizia a Napoli, le proposte del Piano Casa, che potrebbero essere un motore per la ripresa; è uno che sta mantenendo nei tempi le promesse. So che con coerenza ci condurrà per molti anni, salvandoci da un individuo nefasto come Veltroni. Anzi, per questo gli ho pure dedicato un gruppo su Facebook: "Noi, salvati da Berlusconi". Ho avuto 1000 adesioni in tre giorni, sai?
Non siamo d'accordo, ma visto che il blog non censura e lascia spazio alle opinioni, sorridiamo e andiamo avanti, scegliendo di uscire dal contesto politico.
Che idea di felicità hai della tua vita?
La immagino fatta di successi lavorativi, senza mai dimenticare che la forza che mi spinge a raggiungere ogni obiettivo sono la mia compagna e mio figlio. Lei mi è complice, nella scelte di vita, anche se a volte le subisce un po'. E' un tipo autonomo, indipendente. Ci consigliamo insieme, ma fa un lavoro diverso dal mio, slegato dalla comunicazione, più concreto.
E l'inquietudine di Vincenzo si calma. Gli occhi si bloccano verso l'orizzonte, pensando alla donna che ama.
Che sensazione ti dà vedere il Vesuvio così da vicino?
Non ho mai visto il Vesuvio come un pericolo; è piuttosto un paesaggio ameno, che mi appare da dove vivo, sulle pendici del vulcano: un'immensa distesa di verde che cambia colore tutto l'anno, e che in determinati periodi ha sfumature che vanno dal verde al giallo della fioritura delle ginestre, o a quel rossiccio tipico dell'autunno.
Eppure omicidi di camorra e abusivismo edilizio caratterizzano l'hinterland vesuviano. Si può sperare di raggiungere una normalità?
Credo che la speranza di una normalità ci sia sempre. E i tempi sono cambiati. Viene sparso meno sangue, grazie alle nuove generazioni, che stanno cambiando le cose, e che piuttosto che lanciarsi nel buio di una strada senza ritorno, preferiscono lavori umili, ma onesti. Noto oggi una grande voglia di rinascere, di prendersi responsabilità.
Vincenzo sorride, aspetta la pizza, e mi racconta di una serie sul ballo, che sta finendo di girare. Presto sarà a Istanbul per un'altra lavorazione. E poi c'è il Sogno Americano...
Dovessi proprio scegliere, tra il mare di Napoli e gli Stati Uniti?
Ah, sono molto combattuto! Io con il Sogno Americano ci sono nato. Siamo sullo stesso parallelo: a Napoli siamo americani d'oltreoceano, mentre i newyorkesi sembrano napoletani tra i grattacieli.
Quando hai capito che potevi fare cinema?
Sono stati gli altri, anche le persone incontrate per caso, a farmelo capire: negli ultimi tempi soprattutto da Facebook sono nati contatti, facendomi riscoprire una passione sopita. Tutto è cominciato per caso, quando da universitario, molti anni fa, nei pressi della Rai di Napoli, a via Marconi, il produttore della Grundy mi fermò mentre ero con un mio collega. Ci disse che stava partendo una soap, e ci chiese di portare le nostre foto, per partecipare a un provino.
E così è iniziata la tua avventura in "Un posto al sole". Com'è vivere dentro una soap?
Per un ragazzo di poco più di diciotto anni, con poca esperienza sul campo, era bello. Potevo guadagnare i primi soldi, e trovarmi dall'altro lato della tv: la cosa più strana, ricordo, fu scoprire che Villa Palladini era in realtà ricreata tra le pareti di uno studio di posa. E poi lì ho incontrato Patrizio Rispo, una persona stupenda, un uomo che non è così diverso dal suo personaggio, mentre Maurizio Ajello era invece un po' più sulle sue.
Dicevamo che sogni di portare in scena una storia d'amicizia...
Sono sempre stato vocato all'amicizia. Penso che un vero amico sia una ricchezza inestimabile. Sai, ci sono cose con le quali non ci si può confrontare in famiglia; per questo ci sono gli amici veri, quelli che ti ascoltano, ti consigliano, ti sono complici e vicini, nei momenti di reale bisogno. E' vero, sogno di portare in scena una storia che mi è capitato di leggere, di grande e tormentata amicizia, "L'amico ritrovato" di Fred Uhlman.
Difficile inoltrarsi sul sentiero accidentato della politica, in piena campagna elettorale, specie se con il cuore a sinistra si intervista un candidato di destra. Ma basta mettersi in ascolto, e cercare di rispettare la giusta distanza dalle proprie opinioni.
Un giovane può credere oggi in una politica senza compropmessi?
Io ci credo, la mia lo è. Certo, è una politica più difficile, lenta, che fa venir fuori meno velocemente di un'attività fatta compromettendosi; e però questa scelta ti rende più forte, consapevole, preparato. Ho subito parechie angherie, anche da chi diceva di credere in me. Eppure quindici anni di politica con il Centrosinistra mi hanno fatto capire che non esiste ancora uno spazio vero per i giovani che come me fanno politica per passione, e non perchè eredi di qualcuno.
La vena polemica nasconde molta amarezza, e anche il timore che la scelta essere poco capita. La domanda successiva è inevitabile.
Avresti mai pensato di passare con i tuoi vecchi avversari politici del Centrodestra?
Prima, mai, ma poi Walter Veltroni mi ha convinto dell'esatto contrario. La mia opinione è che il PD sia il contenitore di una classe politica vuota, tracotante e autoreferenziale. A trentatrè anni, consigliere comunale a Trecase, già alla quarta consiliatura, pur essendo stato ancora il più votato alle scorse elezioni, sono stato messo da parte a favore di candidati di dubbia qualità, senza esperienza sul territorio.
La polemica si infiamma, ma visto che dirsi di destra o di sinistra significa condividere politiche opposte, ci viene una curiosità.
C'è un tema caldo, quello dei respingimenti dei migranti. Lo appoggi, come provvedimento? Che faresti, se fossi al Governo?
Sono prevalentemente per la solidarietà e l'accoglienza. Noi italiani siamo da sempre un popolo ospitale. Certo, inserirei delle regole piùà rigide a tutela della convivenza, magari utilizzando in certi casi il rimpatrio, ma la prima regola resta accogliere, cristianamente. Respingere significa mettere in pericolo delle vite.
Vincenzo non recita. Ci crede, e ragiona fuori dalle logiche di partito. Chissà come si stava dall'altra parte, quando il Grande Capo era Il Nemico, e così glielo chiediamo.
Cosa pensavi di Berlusconi quando eri suo avversario e cosa ne pensi invece oggi?
Prima ero diffidente. Diffidavo di tanta sicurezza, dei suoi eccessi: temevo fosse un inconcludente. Adesso trovo sia una persona coerente, che con i fatti ha risolto problemi effettivi: l'immondizia a Napoli, le proposte del Piano Casa, che potrebbero essere un motore per la ripresa; è uno che sta mantenendo nei tempi le promesse. So che con coerenza ci condurrà per molti anni, salvandoci da un individuo nefasto come Veltroni. Anzi, per questo gli ho pure dedicato un gruppo su Facebook: "Noi, salvati da Berlusconi". Ho avuto 1000 adesioni in tre giorni, sai?
Non siamo d'accordo, ma visto che il blog non censura e lascia spazio alle opinioni, sorridiamo e andiamo avanti, scegliendo di uscire dal contesto politico.
Che idea di felicità hai della tua vita?
La immagino fatta di successi lavorativi, senza mai dimenticare che la forza che mi spinge a raggiungere ogni obiettivo sono la mia compagna e mio figlio. Lei mi è complice, nella scelte di vita, anche se a volte le subisce un po'. E' un tipo autonomo, indipendente. Ci consigliamo insieme, ma fa un lavoro diverso dal mio, slegato dalla comunicazione, più concreto.
E l'inquietudine di Vincenzo si calma. Gli occhi si bloccano verso l'orizzonte, pensando alla donna che ama.
PIETRO TRECCAGNOLI, VITA DA GIORNALISTA
Dieci minuti di ritardo in un Sabato Santo di sole a Piazza dei Martiri. Istintivamente, Pietro mi porta subito a prendere il caffè in libreria. Così, mentre i clienti cercano tra biografie di attori e manuali di sceneggiatura, lentamente comincia la scoperta. Raramente si va oltre la firma di un articolo. Spesso i giornalisti non hanno volto, se non per le persone di un quartiere che Pietro frequenta da sempre, da quando, ventiduenne, varcò per la prima volta la soglia de "Il Mattino" di Napoli, in via Chiatamone, 65. Più interessante dell'intervista è il racconto di un giornalista che non ha mai voluto essere prigioniero della pagina, vivendo da inviato, e scrivendo di cultura, spettacoli, cronaca. Rivela furbizie, piccoli grandi segreti, con l'inevitabile cinismo di chi ne ha viste tante: di ogni evento sa che esistono regole, ruoli, scalette. Poi però l'emozione che cerca di stemperare nel suo humour anglo napoletano riaffiora. Con lui il discorso diventa una barca da regata, segue una rotta precisa, sconosciuta solo a chi l'ascolta, mentre traccia un quadro capillare e preciso dell'informazione futura tra carta stampata e web, ricostruisce gli scenari di crisi dell'editoria, e del giornale per il quale scrive da sempre, uno dei simboli della città. Racconta la necessità di avere responsabilità e volti dietro le informazioni e le storie date a chi legge. Pietro non crede alle notizie di seconda mano, alla retorica, ai complotti. Sa che le cose viste a pochi metri di distanza sono sempre diverse, e quelle sì, vere. E quando ha voglia di costruire un gioco di specchi semina indizi per ritrovarlo nascosto sotto altre spoglie, come ogni vero esoterista.
È ancora possibile salvare “Il Mattino”?
Sicuramente, è possibile. È un secolo della Storia di Napoli, a patto che non lo si riduca a un foglio locale. Serve la collaborazione di tutti: giornalisti, azienda, lettori, e aggiungo anche di chi non lo legge, ma gli riconosce comunque un ruolo istituzionale di collegamento tra Napoli e le fonti istituzionali e internazionali, oltre che tra i centri decisionali del Paese. “Il Mattino” non è solo Napoli e la Campania. È tutto il Centro Sud. Ha una vocazione che da sempre, dai tempi di Matilde Serao che non per niente andò vicinissima al Nobel poi vinto dalla Deledda, va oltre i suoi limiti regionali, geografici.
Rifaresti il giornalista?
Sì, assolutamente, anche se tutto nacque per caso. Ho vinto uno dei pochi concorsi, con una borsa di studio negli anni Ottanta, entrando dalla porta principale. Sono entrato in questo mestiere vergine, ma non cambierei niente, perché coincide con la parte più lunga della mia vita. Non so fare altro, mi piace moltissimo essere un mediatore dell’informazione. Consente di essere in luoghi dove puoi testimoniare la vita, in una città tra le più esaltanti e complesse, come Napoli. Pensa soltanto a cosa può rappresentare raccontare una storia simbolo come quella dei rifiuti. Perché i giornali del mondo ne hanno parlato? Perché era Napoli. In altre città, e penso soprattutto a Torino e Milano, avrebbe avuto un minore impatto mediatico.
È ancora un lavoro per giovani?
La professione sta cambiando e cambierà molto, per gli strumenti che conosciamo, e cioè la Rete, i blog, la tv, e la carta stampata, che vanno verso l’integrazione, ma ci sarà bisogno sempre dei giovani e di un occhio giovane sulle cose. Avranno però sempre maggiori difficoltà, che peraltro esistono anche in altri settori lavorativi. Il giornalismo italiano ha però lo storico handicap di non aver mai creato vie d’accesso alla professione regolate ed ufficiali. Del resto Enzo Biagi alla domanda su come diventare giornalisti rispondeva che servono delle conoscenze. E in fondo è vero.
Come vivi il tuo impegno politico?
Un giornalista non deve mai, in assoluto, sovrapporre idee politiche o religiose e professione. Sono sempre e comunque difficili da nascondere agli occhi del lettore più attento. Io cerco di essere sempre neutrale, e credo che esserlo sia la regola, tranne che nel giornalismo schierato.
I racconti di un giornalista: le interviste più strane, difficili, i momenti più imbarazzanti…
Scrivere per la pagina Spettacoli ti porta sempre in vetrina, incontri tantissime persone. Ma se devo ricordare un aneddoto preciso non riesco. Difficile è stato intervistare Woody Allen, prima di prendere l’aereo, seduto nella hall perché non avevo una stanza, con il computer sulle gambe. È un lavoro che deve trovarti sempre pronto, come quando mi trovavo a Euro Disney, con il cappellino di Pippo in testa, senza penna ne’ taccuino, e mi dissero che lì a Parigi c'era da lavorare, perché era morta Lady Diana. Ho intervistato tanti attori e scrittori, ma ricordo l’intervista a Palermo e i ringraziamenti, cosa rara, di Attilio Bertolucci, o mi rivedo con Claudio Magris, al Salone del Libro di Torino, nello sgabuzzino della Garzanti. In realtà credo di aver scritto molto spesso in condizione strane, di fortuna. Recentemente è stato difficile entrare in sintonia, conquistandone la fiducia e garantendone l'anonimato, con i ragazzi che facevano i raid contro i Rom a Ponticelli, ma complicato è stato intervistare senza appuntamento, nel backstage di un raduno di italoamericani Robert De Niro: giusto due battute, a Washington. Parecchie volte mi sono infilato, infiltrato lì dove non potevo entrare. La prima regola in questi casi è togliere il badge e travestirsi da turista, per passare inosservato. A Sanremo le interviste sono spesso improvvisate, fatte in corsa. È stata divertente quella a Bono degli U2, che è arrivato alle dieci di sera in sala stampa, quando tutti avevano sbaraccato. Così, in piedi sul bancone, dettando a braccio dal telefonino un sessantina di righe precise, grazie alla bravura del collega in redazione. Ho un bel ricordo dell’intervista a Meryl Streep, seguita nella sua visita agli Scavi di Pompei. Non voleva giornalisti, sono riuscito a intrufolarmi. E in pizzeria mi sono finto turista, mentre c’era la cena riservatissima tra le signore Zapatero e Prodi…
Alcuni sono veri e propri scoop…
A volte li ho cercati, come quando ho rincorso Mario Vargas Llosa, all’epoca candidato alla presidenza del Perù, conosciuto a un premio letterario a Scanno, ed entrando a un pranzo riservato. Lui deve avermi confuso con il presidente che gli consegnò il premio, ma non facemmo la passeggiata che volevamo fare; furono chiacchiere in poltrona, solo che alla conferenza stampa dell'indomani vide troppa folla e la disertò, e io mi ritrovai con l’unica intervista concessa.” Il succo di questo lavoro è semplice: fare la domanda giusta, quella che tutti i lettori vorrebbero fare. Bonanni, Epifani e Angeletti erano stati in Curia. Avevo chiesto al Cardinale se la Chiesa avrebbe appoggiato lo sciopero. Rispose che la Chiesa avrebbe fatto la sua parte. Epifani mi disse che era proprio quello che avrebbero voluto chiedergli e non erano riusciti a sapere. La mattina dopo era il titolo dell’articolo. Era bastata una sola domanda precisa, diretta.
Ti vediamo spesso in Rete. Com’è la vita ai tempi di Facebook?
Ah, è una vita caotica! Però ti consente di conoscere molte persone, stabilire relazioni virtuali, che possono trasformarsi persino in notizie, ma rappresenta comunque una piccola parte della mia vita. Ho ritrovato vecchi compagni di scuola, e una cugina americana che non sapevo di avere, e ci scambiamo video musicali: le ho mandato il video di ‘O Scarrafone, che lei non conosceva.
Rivivrà il tuo Commissario Ascione?
C’è un’idea, e sono partito dalla fine, perchè ti posso anticipare il titolo: “Non ho detto abbastanza” il terzo di una “trilogia delle negazioni”. C’entra Napoli, c’entra Sartre, sarà difficile costruirlo, ma ho un’idea precisa. Diciamo che ci sarà dentro una città diversa, che spesso non viene raccontata. Tutto parte da questo verso di “Losing my religion” dei R.E.M., come “Non sono mai partito” prendeva da Tom Waits, e il mio primo romanzo si intitolava “Non lo chiamano veleno” citando "La Gaia Scienza" di Nietzsche.
Informazione, dolore, etica. Quanto il sisma in Abruzzo è racconto e quanto invece mera speculazione? Che idea ti sei fatto?
Da spettatore temo la retorica, mi fa paura. Ho sofferto, come tantissimi, ma la retorica mi fa soffrire ancora di più, con quel suo misto di ingenuità e banalizzazione. Il dolore è fortissimo, ma vorrei che ci fosse, e so già che purtroppo non ci sarà, la stessa attenzione per la ricostruzione. Mi auguro che gli strumenti di nuova informazione che nell’80 non c’erano, tengano alta l’attenzione sui temi della ricostruzione e nella individuazione delle responsabilità. Ricordo bene il 23 novembre 1980, in quei giorni ho vissuto per un periodo fuori casa, avevo ventun anni, e anche se non ho perso nessuno è stata dura, posso comprendere cosa si prova.
Marco Risi ha saputo raccontare Siani in “Fortapasc”? Tu lo conoscevi, Giancarlo?
Non l’ho ancora visto, il film, ma voglio vederlo. Giancarlo e io eravamo entrambi abusivi. Troppi ne hanno parlato, e anche chi non lo conosceva bene oggi dice il contrario. Io no, non l’ho conosciuto a fondo. Parlavamo delle assunzioni, del nostro futuro, a mensa. Era un ragazzo di 26 anni simpatico e disponibile. Ignoravo che si fosse occupato di Torre Annunziata, perché di solito scriveva di traffico, qui a Napoli. Anche il pezzo che si dice l’abbia condannato uscì nelle pagine locali di Castellamare. Il giorno della sua morte non ero in redazione. La mattina seguente sentì alla radio che avevano assassinato un giornalista ed ero incredulo: avrei detto di altri, ma non avrei mai immaginato si trattasse di lui; solo dopo ne è venuta un’immagine più ricca, e abbiamo saputo tutti chi davvero era Giancarlo Siani. Ho sempre immaginato, pensando a lui, oggi, che cosa avrebbe fatto: sarebbe stato un giornalista anonimo come tanti, o sarebbe stato un ottimo cronista come giù era, o chissà… forse sarebbe diventato direttore…! Chissà. Mi sarebbe piaciuto parlargli da coetaneo, come si fa tra colleghi, quando si parla dei film visti, dei libri letti, dei figli a scuola. Ci hanno tolto concretamente un amico della quotidianità, purtroppo. Questa è la verità, oltre la tanta inevitabile retorica. E invece lui era tutto il contrario di un eroe, aveva solo un incredibile accanimento sulla notizia. Questa è la realtà, che spesso viene mescolata alla fantasia.
È ancora possibile salvare “Il Mattino”?
Sicuramente, è possibile. È un secolo della Storia di Napoli, a patto che non lo si riduca a un foglio locale. Serve la collaborazione di tutti: giornalisti, azienda, lettori, e aggiungo anche di chi non lo legge, ma gli riconosce comunque un ruolo istituzionale di collegamento tra Napoli e le fonti istituzionali e internazionali, oltre che tra i centri decisionali del Paese. “Il Mattino” non è solo Napoli e la Campania. È tutto il Centro Sud. Ha una vocazione che da sempre, dai tempi di Matilde Serao che non per niente andò vicinissima al Nobel poi vinto dalla Deledda, va oltre i suoi limiti regionali, geografici.
Rifaresti il giornalista?
Sì, assolutamente, anche se tutto nacque per caso. Ho vinto uno dei pochi concorsi, con una borsa di studio negli anni Ottanta, entrando dalla porta principale. Sono entrato in questo mestiere vergine, ma non cambierei niente, perché coincide con la parte più lunga della mia vita. Non so fare altro, mi piace moltissimo essere un mediatore dell’informazione. Consente di essere in luoghi dove puoi testimoniare la vita, in una città tra le più esaltanti e complesse, come Napoli. Pensa soltanto a cosa può rappresentare raccontare una storia simbolo come quella dei rifiuti. Perché i giornali del mondo ne hanno parlato? Perché era Napoli. In altre città, e penso soprattutto a Torino e Milano, avrebbe avuto un minore impatto mediatico.
È ancora un lavoro per giovani?
La professione sta cambiando e cambierà molto, per gli strumenti che conosciamo, e cioè la Rete, i blog, la tv, e la carta stampata, che vanno verso l’integrazione, ma ci sarà bisogno sempre dei giovani e di un occhio giovane sulle cose. Avranno però sempre maggiori difficoltà, che peraltro esistono anche in altri settori lavorativi. Il giornalismo italiano ha però lo storico handicap di non aver mai creato vie d’accesso alla professione regolate ed ufficiali. Del resto Enzo Biagi alla domanda su come diventare giornalisti rispondeva che servono delle conoscenze. E in fondo è vero.
Come vivi il tuo impegno politico?
Un giornalista non deve mai, in assoluto, sovrapporre idee politiche o religiose e professione. Sono sempre e comunque difficili da nascondere agli occhi del lettore più attento. Io cerco di essere sempre neutrale, e credo che esserlo sia la regola, tranne che nel giornalismo schierato.
I racconti di un giornalista: le interviste più strane, difficili, i momenti più imbarazzanti…
Scrivere per la pagina Spettacoli ti porta sempre in vetrina, incontri tantissime persone. Ma se devo ricordare un aneddoto preciso non riesco. Difficile è stato intervistare Woody Allen, prima di prendere l’aereo, seduto nella hall perché non avevo una stanza, con il computer sulle gambe. È un lavoro che deve trovarti sempre pronto, come quando mi trovavo a Euro Disney, con il cappellino di Pippo in testa, senza penna ne’ taccuino, e mi dissero che lì a Parigi c'era da lavorare, perché era morta Lady Diana. Ho intervistato tanti attori e scrittori, ma ricordo l’intervista a Palermo e i ringraziamenti, cosa rara, di Attilio Bertolucci, o mi rivedo con Claudio Magris, al Salone del Libro di Torino, nello sgabuzzino della Garzanti. In realtà credo di aver scritto molto spesso in condizione strane, di fortuna. Recentemente è stato difficile entrare in sintonia, conquistandone la fiducia e garantendone l'anonimato, con i ragazzi che facevano i raid contro i Rom a Ponticelli, ma complicato è stato intervistare senza appuntamento, nel backstage di un raduno di italoamericani Robert De Niro: giusto due battute, a Washington. Parecchie volte mi sono infilato, infiltrato lì dove non potevo entrare. La prima regola in questi casi è togliere il badge e travestirsi da turista, per passare inosservato. A Sanremo le interviste sono spesso improvvisate, fatte in corsa. È stata divertente quella a Bono degli U2, che è arrivato alle dieci di sera in sala stampa, quando tutti avevano sbaraccato. Così, in piedi sul bancone, dettando a braccio dal telefonino un sessantina di righe precise, grazie alla bravura del collega in redazione. Ho un bel ricordo dell’intervista a Meryl Streep, seguita nella sua visita agli Scavi di Pompei. Non voleva giornalisti, sono riuscito a intrufolarmi. E in pizzeria mi sono finto turista, mentre c’era la cena riservatissima tra le signore Zapatero e Prodi…
Alcuni sono veri e propri scoop…
A volte li ho cercati, come quando ho rincorso Mario Vargas Llosa, all’epoca candidato alla presidenza del Perù, conosciuto a un premio letterario a Scanno, ed entrando a un pranzo riservato. Lui deve avermi confuso con il presidente che gli consegnò il premio, ma non facemmo la passeggiata che volevamo fare; furono chiacchiere in poltrona, solo che alla conferenza stampa dell'indomani vide troppa folla e la disertò, e io mi ritrovai con l’unica intervista concessa.” Il succo di questo lavoro è semplice: fare la domanda giusta, quella che tutti i lettori vorrebbero fare. Bonanni, Epifani e Angeletti erano stati in Curia. Avevo chiesto al Cardinale se la Chiesa avrebbe appoggiato lo sciopero. Rispose che la Chiesa avrebbe fatto la sua parte. Epifani mi disse che era proprio quello che avrebbero voluto chiedergli e non erano riusciti a sapere. La mattina dopo era il titolo dell’articolo. Era bastata una sola domanda precisa, diretta.
Ti vediamo spesso in Rete. Com’è la vita ai tempi di Facebook?
Ah, è una vita caotica! Però ti consente di conoscere molte persone, stabilire relazioni virtuali, che possono trasformarsi persino in notizie, ma rappresenta comunque una piccola parte della mia vita. Ho ritrovato vecchi compagni di scuola, e una cugina americana che non sapevo di avere, e ci scambiamo video musicali: le ho mandato il video di ‘O Scarrafone, che lei non conosceva.
Rivivrà il tuo Commissario Ascione?
C’è un’idea, e sono partito dalla fine, perchè ti posso anticipare il titolo: “Non ho detto abbastanza” il terzo di una “trilogia delle negazioni”. C’entra Napoli, c’entra Sartre, sarà difficile costruirlo, ma ho un’idea precisa. Diciamo che ci sarà dentro una città diversa, che spesso non viene raccontata. Tutto parte da questo verso di “Losing my religion” dei R.E.M., come “Non sono mai partito” prendeva da Tom Waits, e il mio primo romanzo si intitolava “Non lo chiamano veleno” citando "La Gaia Scienza" di Nietzsche.
Informazione, dolore, etica. Quanto il sisma in Abruzzo è racconto e quanto invece mera speculazione? Che idea ti sei fatto?
Da spettatore temo la retorica, mi fa paura. Ho sofferto, come tantissimi, ma la retorica mi fa soffrire ancora di più, con quel suo misto di ingenuità e banalizzazione. Il dolore è fortissimo, ma vorrei che ci fosse, e so già che purtroppo non ci sarà, la stessa attenzione per la ricostruzione. Mi auguro che gli strumenti di nuova informazione che nell’80 non c’erano, tengano alta l’attenzione sui temi della ricostruzione e nella individuazione delle responsabilità. Ricordo bene il 23 novembre 1980, in quei giorni ho vissuto per un periodo fuori casa, avevo ventun anni, e anche se non ho perso nessuno è stata dura, posso comprendere cosa si prova.
Marco Risi ha saputo raccontare Siani in “Fortapasc”? Tu lo conoscevi, Giancarlo?
Non l’ho ancora visto, il film, ma voglio vederlo. Giancarlo e io eravamo entrambi abusivi. Troppi ne hanno parlato, e anche chi non lo conosceva bene oggi dice il contrario. Io no, non l’ho conosciuto a fondo. Parlavamo delle assunzioni, del nostro futuro, a mensa. Era un ragazzo di 26 anni simpatico e disponibile. Ignoravo che si fosse occupato di Torre Annunziata, perché di solito scriveva di traffico, qui a Napoli. Anche il pezzo che si dice l’abbia condannato uscì nelle pagine locali di Castellamare. Il giorno della sua morte non ero in redazione. La mattina seguente sentì alla radio che avevano assassinato un giornalista ed ero incredulo: avrei detto di altri, ma non avrei mai immaginato si trattasse di lui; solo dopo ne è venuta un’immagine più ricca, e abbiamo saputo tutti chi davvero era Giancarlo Siani. Ho sempre immaginato, pensando a lui, oggi, che cosa avrebbe fatto: sarebbe stato un giornalista anonimo come tanti, o sarebbe stato un ottimo cronista come giù era, o chissà… forse sarebbe diventato direttore…! Chissà. Mi sarebbe piaciuto parlargli da coetaneo, come si fa tra colleghi, quando si parla dei film visti, dei libri letti, dei figli a scuola. Ci hanno tolto concretamente un amico della quotidianità, purtroppo. Questa è la verità, oltre la tanta inevitabile retorica. E invece lui era tutto il contrario di un eroe, aveva solo un incredibile accanimento sulla notizia. Questa è la realtà, che spesso viene mescolata alla fantasia.
BEPPE GRILLO, SAGGEZZA E FOLLIA
Questo 23 febbraio Beppe Grillo porta in scena “Delirio” al Teatro Augusteo di Napoli. I ragazzi del Meetup preparano i banchetti per informare e autofinanziarsi vendendo libri. Il pubblico è eterogeneo: non ci sono solo ambientalisti della prima ora e anticasta arrabbiatissimi, ma anche tanta gente comune che ha voglia di trascorrere due ore di intrattenimento. Le persone più agiate nel chiuso delle loro coscienze vivranno un bel conflitto tra il lusso immotivato di una pelliccia nell’inverno napoletano e l’obbligo morale di salvare un pianeta in agonia e la sua natura. Quando Beppe Grillo arriva è tardi: l'intervista sembra già sfumata, ma Roberto Fico e Marco Savarese del Meetup Napoli ci aiutano molto. Più delle domande –da fare in fretta prima che la voce dell’Augusteo chiami l’ingresso in scena – ci interessa osservare da vicino la persona, amato da molti, ma anche molto avversato. Alla porta non ci sono gorilla ne' guardie del corpo. Il segreto di Beppe Grillo è nella sua normalità: ascolta i due ragazzi che per aver denunciato le discariche di camorra hanno ricevuto minacce di morte, e consiglia di non scegliere il silenzio: sarebbe pericoloso, perché isolarsi farebbe il gioco di chi li ha minacciati. Dopo pochi minuti si lascia intervistare senza finzioni, con semplicità. Davanti allo specchio illuminato, nel camerino dietro il boccascena, ci sono una bottiglia di integratore, acqua, biscotti, balsamo. Beppe è un signore di sessant’anni, in forma, diverso dal giovane comico che Pippo Baudo lanciò a metà anni Settanta, ma ha un lampo negli occhi che rivela grande vivacità e una insopprimibile voglia di scoprire. Ad ascoltarlo si crea un bel corto circuito tra il tono oltranzista degli affondi e la sostanza limpida dei messaggi. Entriamo, Beppe legge sul giornale e cerchia le notizie che possono aiutarlo a trovare nuovi spunti. Il suo è uno spettacolo costantemente in progress.
A pochi giorni dalla riunione di Firenze per la Lista Civica Comuni a 5 Stelle gli chiediamo che sensazioni ha, cosa pensa potrà succedere dopo l’8 marzo.
Non lo so, sono curioso anch’io di sapere cosa succede, quanta gente viene. Ci saranno proposte, controproposte, gente incazzata. Sarà il primo impatto con movimenti che cercano un contatto tra loro. Penso che ne usciremo con direttive più chiare. Io riceverò i ragazzi alle 10,00 e chiuderò. Si finirà a sera inoltrata.
Beppe parla spesso della sua famiglia. Giusto chiedergli come vivono la rivoluzione che ha iniziato.
Sono tutti abbastanza sul chi va là. Sai, ho mia moglie iraniana, è una signora dell’altra parte politica, piena di voglia di vivere, che mi dice: “Chi te lo fa fare?” Come pensare, a volte, che non abbia ragione lei? Poi vedo mio figlio piccolo, che condivide quello che faccio. Penso di essere un esempio positivo, per lui.
E allora è il caso di tornare indietro almeno all’inizio dell’avventura del suo Blog. Ecco il suo ricordo.
Era il gennaio 2005. Avevo letto un libro di Casaleggio. Il titolo credo fosse “Morto il web, viva il web”. Ho visto tra le righe che era una persona da conoscere. Ho capito le sue strategie di rete. Abbiamo fatto un blog nuovo, artigianale, con la mia faccia. Così via via, da un commento a dieci, venti, cento, tremila... E poi gli accessi, prima dieci poi su fino a trecentomila, scalando le più importanti classifiche di settore. E oggi siamo il settimo blog più letto al mondo. Cerchiamo di informare, se non ci bloccano prima. Se mi chiudono il blog, me ne vado in Australia e vi lascio in compagnia del mio ologramma! Temo che Berlusconi voglia comprare la dorsale di Telecom per passare a un regime di tipo argentino, militarizzando il Paese. Abbiamo già più corpi militari della Bolivia, credo. E rischiamo davvero di fare la fine dell’Argentina. Non quella delle pentole in strada, eh, ma quella dei Colonnelli!
Suona il telefono, lo cerca una ragazza ucraina che non è riuscita a entrare. E l’intervista continua, per un ultima domanda. Beppe non rinuncia mai al gusto della battuta. Ma dentro si nasconde sempre un retrogusto amaro. Una grossa trasformazione nel tempo, da comico in attivista, no?
È stata la mia evoluzione come persona. Non potevo stare lì a fare “Te la do l’America”, o a dire ”È una cosa pazzesca!” per tutta la vita…! È stato un cambiamento naturale. Così, mi sono buttato in un buco nero entusiasmante. I mondi si cambiano grazie a piccoli gesti, come quella donna nera che un giorno si rifiutò di cedere il posto per il colore della sua pelle. Poi, beh, le cose non sai mai bene dove portano. Ecco, io voglio cambiare il mondo. O almeno cambiare un sistema che in realtà si è già disintegrato da solo. Ho dato un’accelerata a una cosa già segnata.
Fuori i collaboratori guardano l’orologio. Dispiace, ma dobbiamo andare via. Torniamo spettatori. Beppe è mattatore per due ore. Ride, fa pensare, si arrabbia, dà spazio ai ragazzi del Meetup, passa dalla politica all’ambiente, dal web all’economia, tornando pienamente a fare show. Ci si diverte, si pensa. E all’uscita Grillo non si nega alle foto e alle domande della gente. Poi a cena, per una lasagna alla napoletana da “Ciro a Santa Brigida”, e quattro chiacchiere con gli amici parlando di teatro, musica, De Andrè, politica. Poi in auto, nella notte, verso un concerto jazz. Neanche i tanti nemici che si è fatto potranno mai negarne la grande carica umana.
A pochi giorni dalla riunione di Firenze per la Lista Civica Comuni a 5 Stelle gli chiediamo che sensazioni ha, cosa pensa potrà succedere dopo l’8 marzo.
Non lo so, sono curioso anch’io di sapere cosa succede, quanta gente viene. Ci saranno proposte, controproposte, gente incazzata. Sarà il primo impatto con movimenti che cercano un contatto tra loro. Penso che ne usciremo con direttive più chiare. Io riceverò i ragazzi alle 10,00 e chiuderò. Si finirà a sera inoltrata.
Beppe parla spesso della sua famiglia. Giusto chiedergli come vivono la rivoluzione che ha iniziato.
Sono tutti abbastanza sul chi va là. Sai, ho mia moglie iraniana, è una signora dell’altra parte politica, piena di voglia di vivere, che mi dice: “Chi te lo fa fare?” Come pensare, a volte, che non abbia ragione lei? Poi vedo mio figlio piccolo, che condivide quello che faccio. Penso di essere un esempio positivo, per lui.
E allora è il caso di tornare indietro almeno all’inizio dell’avventura del suo Blog. Ecco il suo ricordo.
Era il gennaio 2005. Avevo letto un libro di Casaleggio. Il titolo credo fosse “Morto il web, viva il web”. Ho visto tra le righe che era una persona da conoscere. Ho capito le sue strategie di rete. Abbiamo fatto un blog nuovo, artigianale, con la mia faccia. Così via via, da un commento a dieci, venti, cento, tremila... E poi gli accessi, prima dieci poi su fino a trecentomila, scalando le più importanti classifiche di settore. E oggi siamo il settimo blog più letto al mondo. Cerchiamo di informare, se non ci bloccano prima. Se mi chiudono il blog, me ne vado in Australia e vi lascio in compagnia del mio ologramma! Temo che Berlusconi voglia comprare la dorsale di Telecom per passare a un regime di tipo argentino, militarizzando il Paese. Abbiamo già più corpi militari della Bolivia, credo. E rischiamo davvero di fare la fine dell’Argentina. Non quella delle pentole in strada, eh, ma quella dei Colonnelli!
Suona il telefono, lo cerca una ragazza ucraina che non è riuscita a entrare. E l’intervista continua, per un ultima domanda. Beppe non rinuncia mai al gusto della battuta. Ma dentro si nasconde sempre un retrogusto amaro. Una grossa trasformazione nel tempo, da comico in attivista, no?
È stata la mia evoluzione come persona. Non potevo stare lì a fare “Te la do l’America”, o a dire ”È una cosa pazzesca!” per tutta la vita…! È stato un cambiamento naturale. Così, mi sono buttato in un buco nero entusiasmante. I mondi si cambiano grazie a piccoli gesti, come quella donna nera che un giorno si rifiutò di cedere il posto per il colore della sua pelle. Poi, beh, le cose non sai mai bene dove portano. Ecco, io voglio cambiare il mondo. O almeno cambiare un sistema che in realtà si è già disintegrato da solo. Ho dato un’accelerata a una cosa già segnata.
Fuori i collaboratori guardano l’orologio. Dispiace, ma dobbiamo andare via. Torniamo spettatori. Beppe è mattatore per due ore. Ride, fa pensare, si arrabbia, dà spazio ai ragazzi del Meetup, passa dalla politica all’ambiente, dal web all’economia, tornando pienamente a fare show. Ci si diverte, si pensa. E all’uscita Grillo non si nega alle foto e alle domande della gente. Poi a cena, per una lasagna alla napoletana da “Ciro a Santa Brigida”, e quattro chiacchiere con gli amici parlando di teatro, musica, De Andrè, politica. Poi in auto, nella notte, verso un concerto jazz. Neanche i tanti nemici che si è fatto potranno mai negarne la grande carica umana.
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