TIBERIO MAVRICI, IL POETA DELLE IMMAGINI

MILANO Una fotografia è il filo per rimanere aggrappati alla terra. In Tiberio Mavrici, fotografo taurianovese da anni a Milano, quel filo resta ben saldo. I titoli dei suoi progetti, così semplici, mentono sullo sguardo potente di “Cartoline da Milano” e “Duomo Street”, dove la quotidianità milanese non sfugge all’obiettivo, che la legge in controluce, nel volto di un venditore di fiori, riconsegnato a una dimensione intima, umana; o come la Galleria e il Duomo di notte, ammantati di magia. “Mistero della fede” tinge di misticismo luoghi che hanno smarrito la loro storia, lungo un itinerario sotterraneo, verso una Milano poco raccontata. L’appartenenza alla Piana di Gioia Tauro per questo ricercatore sociale dell’attimo, appassionato di biciclette e di persone, riemerge forte, tra i riti pagani di Milano, e la sacralità dell’Affruntata e della Calabria eterna, che vive in chi viaggia, profumata di terra e pietra, sincera e arida. Ci ha spiegato l’abbandono, Tiberio, e la vita lombarda, su quella bicicletta che torna in molti suoi scatti. “Non vivo più di fotografia, già da qualche anno”, ci dice, con voce timida e commossa, “crisi dell’editoria e avvento del digitale hanno reso tutto difficile in un Paese già privo di cultura fotografica. In Francia, in Germania, sarebbe diverso. La vivo come una grande passione, ma lavoro in università. Collaboro con alcuni giornali, faccio progetti di lungo respiro, lavoro a ideare mostre. Non potevo gestire gli umori dei foto editors e delle agenzie.” Mavrici ci racconta di quando il Corriere pagava una foto in bianco e nero 90mila e 120mila a colori, contro i sette euro di oggi. “Amo il reportage sociale, raccontare storie. E in Italia non c’è mercato”, dice. Ha il cuore in Calabria, e nella sua “’A Ffruntata” c’è Spirito, e un lavoro durato cinque anni, per una fotografia vissuta come documento. “Da tre anni lavoro a un’Affruntata a colori, che esca dal folkloristico per tornare immagine intima, spirituale. Ho ceduto anch’io al digitale, ma salvando la mentalità della pellicola. Non guardo le foto che faccio, perchè la foto conservi certe sensazioni”. “Ganna rossa” ha richiesto quattro anni di sforzi per realizzare in immagini lo straordinario racconto d’amore del giornalista scrittore rizziconese Antonino Catananti. “Da piccolo andavo in bicicletta, amo farlo ancora. Mi affascinava il suo uso quotidiano, e allora ecco questo progetto da Milano a Parigi, da Copenhagen a Berlino…” Milano, presente nella vita di Tiberio come la sua Taurianova, è nel progetto “Le porte di Milano”, ma già un futuro lavoro sul “Senso dell’azzurro” lo spinge altrove. Tiberio amava i grandi fotografi francesi e per entrare in Scuola Civica a Milano lasciò Taurianova, dove era nato nel 1968, e rimase fino al 1994. “In Calabria lavoravo nel negozio di famiglia, fotografavo matrimoni e cronaca, ma volevo di più. Lasciare terra e affetti non fu facile, e per pagarmi le scuole serali, collaborai con Il Corriere, La Repubblica, Il Giorno; con un’amica facevamo foto ai matrimoni, poi sono venuti i primi progetti.” La concorrenza e il digitale l’hanno spinto a sperimentare la fotografia sociale, come autore di progetti: “Ho conosciuto un missionario catanese, don Carmelo La Rosa. In Albania abbiamo tenuto corsi di fotografia per ragazzi e progetti sulla realtà albanese.” Si emoziona parlando di “Cuore a sud”, teatro- canzone con Lello Naso e Nino Forestieri, sui tanti ragazzi che lasciano la Calabria, fotografati senza filtri, davanti casa: “Mi sono rivisto, in quei volti di ragazzi che lasciano la Piana per studiare e lavorare, soffrendo in silenzio. Quando torno a Pasqua, ci sto male. Poi vedo altri giovani sui macchinoni, il mare abbandonato… Amaro e dolce si confondono. Restano i ricordi, i nipoti, le fotografie; eppure, mi sento fortemente calabrese, non dimentico questa terra bella e aspra come il suo Monte, e i volti di donna olivastri, dalla bellezza acerba, che resta in mente.”

GIANLUCA IOVINE

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