ANNA GAETANO: "MIO FRATELLO ERA UN FIGLIO UNICO"

ROMA. Il 29 ottobre non è un giorno come gli altri, per chi lo ama. È il compleanno di Rino Gaetano. Oggi ne avrebbe fatti sessanta. Un signore di mezza età. Chissà cosa avrebbe detto del Paese, lui che vedeva lontano attaccando col sorriso i luoghi comuni e Potere… Lì dove ora riposa, nella scritta di marmo che dice “Ma il cielo è sempre più blu”, i colori dei fiori si spengono sulla foto intensa, lo sguardo rivolto all’obiettivo, i pensieri verso l’orizzonte. Un cappello nero, e il viso dolce e malinconico. In basso, la piccola foto con il frac di scena. Giorni pieni, per sua sorella. Lei è lì, ha un attimo di tregua prima della troupe del Tg1, dei concerti, delle telefonate. Anna ha una voce ruvida, diretta, tradisce l’emozione, a tratti. Negli ultimi anni la fiction Rai e le parole di Antonello Venditti l’hanno ferita: Rino non è stato descritto come era realmente, e illazioni e dolore hanno spinto Anna ad armarsi di carta bollata e combattere, perché non si infangasse la memoria di Rino e della sua famiglia. Oggi avrebbe avuto sessant’anni, come se lo immagina? Come sempre: longilineo, brizzolato, ma con lo stesso spirito, perché il carattere, quello, non si cambia. Quella voce mette soggezione: risponde, ma sembra in realtà domandare il perché di tanta curiosità, in questi ultimi anni, e non magari vent’anni fa, quando Rino era rimasto con pochi veri amici. Che ragazzo era Rino Gaetano? Molto gioviale, alla mano. Un ragazzo che teneva molto alla famiglia. Eravamo solo in quattro, a Roma, perché un altro fratello, il povero Giuseppe, ce l’aveva portato via l’Asiatica. Poi sono arrivati i nipoti. Con i miei figli facciamo di tutto per mantenere vivo il ricordo di Rino. Ascoltarlo emoziona sempre di più, anno dopo anno. Lei, Anna, cosa prova quando altri artisti salgono sul palco a interpretare una sua canzone? Le solite emozioni. Mi emoziona troppo di più sentirle cantate da Rino… Poi c’è la Rino Gaetano Band, con mio figlio Alessandro, e altri bravissimi musicisti, come Federico D’Angeli, e Marco Morandi. Il figlio di Gianni Morandi ha cantato anche un inedito… Sì, gliel’ho dato io. E anche la canzone di Paolo Rossi. Anche se era incompiuta, Paolo è riuscita a renderla al meglio. Lei ha ancora parecchi inediti, quindi? Da quelle canzoni che solo lei ha potuto ascoltare, che ritratto esce di Rino? Sì, ho ancora parecchio materiale, al sicuro, ben conservato, e lo ascolterete, ma con lentezza, poco a poco, finché ci sarò io. Poi toccherà a mio figlio occuparsene. Comunque, anche in quelle canzoni c’è sempre Rino, fino in fondo. Cosa le manca di più di suo fratello? Mi manca tutto di lui, la sua presenza, i suoi modi… La voce si fa commossa, anche quando ricordiamo insieme le canzoni dedicate alla Calabria: Era rimasto calabrese, Rino, anche se Roma era la sua seconda città… Sì. Calabrese, sempre, anche nelle piccole cose. Le sue canzoni parlano spesso di Sud, e Calabria, con forza e ironia. Sì, i suoi testi dicono molte cose. Anche oggi, su tante situazioni Rino avrebbe tanto da dire… Per molti Rino era un alieno piombato in frac e ukulele a sconvolgere di ironia Sanremo 1978. Cosa ha provato a ritrovarselo al Festival, Anna? Lo sapevo già prima, molte cose me le raccontava, e ne ero stata felice. Non ho potuto raggiungerlo, i miei tre figli erano ancora piccoli, ma fu un’emozione, e non solo per il risultato. La stessa gioia provata a sentire Paolo Rossi, cantare una sua canzone, quasi trent’anni dopo. Per molti, canzoni come “La Ballata di Renzo” sono vere e proprie profezie. Rino guardava lontano o erano solo coincidenze? Credo che di persone come Rino ce ne siano una ogni mille. Non so se fosse un mago, o un profeta, ma so che certe cose se le sentiva dentro, erano frutto della sua sensibilità. Lei non si è mai sottratta all’incontro con fan e media. Non le costa esporre i suoi sentimenti così? No, mi fa solo piacere. Non mi costa nulla. A quale canzone si sente più legata? A tutte. Però ”Mio fratello è figlio unico” la associo a lui. Perché mio fratello era speciale. Anna, come pensa sia più giusto ricordare Rino? Così, semplicemente. Voglio che Rino sia nel cuore di tutti ogni giorno. Ci salutiamo. Anna può riprendere a sistemare la tomba al Verano. Verranno in tanti, qui, da tutta Italia, a lasciare parole e fiori. In un rito colorato e malinconico come il Cielo di Rino.

RENATO BELLOFIORE, IL SINDACO DI UNA CITTA' DIFFICILE

GIOIA TAURO La sala dedicata ad Antonino Scopelliti si è svuotata. Per una volta i toni polemici hanno ceduto il passo al senso di collaborazione. Cgil e Funzione Pubblica hanno teso la mano alle istituzioni. Con il sindaco Renato Bellofiore discutono insieme della crisi, che racconta di un’economia azzerata e al tempo stesso di una emergenza primaria per duecento famiglie. Dissesto finanziario e idrogeologico sembrano essere i due volti di uno stesso problema. Le casse di Gioia prosciugate, in un momento già di per se stesso difficile, e l’urgenza di chi ha perso tutto e chiede aiuto alle istituzioni si mischiano. La squadra della Protezione civile ha le tute gialle ancora sporche di fango. Il comandante Enzo Bonio, con Pietro Iannello e Jessica Ghelli, dei Rancers di Gioia riferisce al primo cittadino delle ingiuste critiche ai soccorsi, e aggiorna sulle operazioni di sicurezza. Un cittadino di Palmi offre appoggio, si parla della raccolta fondi per gli sfollati, Antonio Crispi segretario nazionale della Funzione Pubblica Cgil consiglia di parlare della crisi gioiese all’Anci. Dai cittadini, arrivano le prime offerte di case sfitte per offrire un riparo ai gioiesi colpiti dall’alluvione. Il sindaco si siede e risponde, senza barriere, partendo da una valutazione della passata gestione che analizza in primis l’aspetto tecnico: “La mia è una valutazione economica e finanziaria: oggettivamente il Comune ha debiti enormi e questa amministrazione lavora in emergenza, visto che in bilancio sono accertati 22 milioni di euro di passivo.” La soluzione però esiste, ci dice: “Ci vuole oculatezza e taglio della spesa pubblica superflua, a partire dalle esternalizzazioni dei servizi”. Il rientro si potrà avere, responsabilmente: “Spingendo sulla riscossione dei tributi, ad esempio”. Dal dissesto dei conti a quello del territorio. Come lavorerà sul fronte della prevenzione, per evitare il ripetersi di situazioni così drammatiche? “Intendo sbloccare il milione già stanziato dalla Regione a suo tempo per risanare il Budello; la procedura per farlo è in fase di aggiudicazione. Una cosa non risolutiva, certo, ma per questo territorio una boccata d’ossigeno”. I vecchi progetti di risanamento ambientale sono ancora validi, perché semplicemente mai usati: “Si tratta di tirarli fuori dal cassetto, e procedere alla riforestazione, alla messa in sicurezza di argini e fiumare”. E dell’abusivismo, cosa ci dice? “Proprio le passate amministrazioni, da cui provengono anche le accuse di questi giorni, concedevano le autorizzazioni. Io mi impegno a combattere l’abusivismo, da me nemmeno un’autorizzazione”. Il sindaco è sereno e risoluto, anche se riflette a voce alta sul momento: “Gioia Tauro è tra i pochi centri a offrire ancora lavoro. Va tutelata, perché se dovesse venir meno, gli effetti sarebbero forti su tutta la Piana”. Le accuse sul ritardo nei soccorsi restano voci, cui Bellofiore oppone documenti: “La prego, guardi qui. Il fax dice il vero, il resto sono falsità usate per strumentalizzare. Il comunicato della Prefettura indica le 12:57. A otto minuti dall’allerta, alle 13:05 del 2 novembre, la comunicazione di pericolo era già stata inviata dal mio ufficio a Prefettura, Protezione Civile e forze di polizia. Fino alle 17,00 abbiamo patito gli effetti del disastro, ma l’attivazione è stata immediata, altrimenti avremmo avuto delle vittime.” E del grande sforzo di tutta una comunità, è prova, la sera stessa, il ricovero di duecento famiglie, che in serata hanno almeno trovato un letto e un pasto caldo in albergo. Gli attacchi alle banche sono stati lanciati più volte durante l’assemblea pubblica. Bellofiore preferisce dire la sua senza attaccare gratuitamente: “Può capire che enorme mole di lavoro ci sia, e ci spiace molto che in questo dramma la Banca Popolare del Mezzogiorno, nel pieno di un problema di ordine pubblico e sanitario, continui imperterrita nella sospensione del servizio tesoreria. Ecco, dalle banche ci saremmo aspettati una risposta diversa, visto che da parte nostra c’è stata addirittura la disponibilità a rivedere i tassi del contratto originario in senso a loro più favorevole”. Il sindaco ci saluta, la difficoltà del momento non gli fa paura. Ha voglia di fare.

TIBERIO MAVRICI, IL POETA DELLE IMMAGINI

MILANO Una fotografia è il filo per rimanere aggrappati alla terra. In Tiberio Mavrici, fotografo taurianovese da anni a Milano, quel filo resta ben saldo. I titoli dei suoi progetti, così semplici, mentono sullo sguardo potente di “Cartoline da Milano” e “Duomo Street”, dove la quotidianità milanese non sfugge all’obiettivo, che la legge in controluce, nel volto di un venditore di fiori, riconsegnato a una dimensione intima, umana; o come la Galleria e il Duomo di notte, ammantati di magia. “Mistero della fede” tinge di misticismo luoghi che hanno smarrito la loro storia, lungo un itinerario sotterraneo, verso una Milano poco raccontata. L’appartenenza alla Piana di Gioia Tauro per questo ricercatore sociale dell’attimo, appassionato di biciclette e di persone, riemerge forte, tra i riti pagani di Milano, e la sacralità dell’Affruntata e della Calabria eterna, che vive in chi viaggia, profumata di terra e pietra, sincera e arida. Ci ha spiegato l’abbandono, Tiberio, e la vita lombarda, su quella bicicletta che torna in molti suoi scatti. “Non vivo più di fotografia, già da qualche anno”, ci dice, con voce timida e commossa, “crisi dell’editoria e avvento del digitale hanno reso tutto difficile in un Paese già privo di cultura fotografica. In Francia, in Germania, sarebbe diverso. La vivo come una grande passione, ma lavoro in università. Collaboro con alcuni giornali, faccio progetti di lungo respiro, lavoro a ideare mostre. Non potevo gestire gli umori dei foto editors e delle agenzie.” Mavrici ci racconta di quando il Corriere pagava una foto in bianco e nero 90mila e 120mila a colori, contro i sette euro di oggi. “Amo il reportage sociale, raccontare storie. E in Italia non c’è mercato”, dice. Ha il cuore in Calabria, e nella sua “’A Ffruntata” c’è Spirito, e un lavoro durato cinque anni, per una fotografia vissuta come documento. “Da tre anni lavoro a un’Affruntata a colori, che esca dal folkloristico per tornare immagine intima, spirituale. Ho ceduto anch’io al digitale, ma salvando la mentalità della pellicola. Non guardo le foto che faccio, perchè la foto conservi certe sensazioni”. “Ganna rossa” ha richiesto quattro anni di sforzi per realizzare in immagini lo straordinario racconto d’amore del giornalista scrittore rizziconese Antonino Catananti. “Da piccolo andavo in bicicletta, amo farlo ancora. Mi affascinava il suo uso quotidiano, e allora ecco questo progetto da Milano a Parigi, da Copenhagen a Berlino…” Milano, presente nella vita di Tiberio come la sua Taurianova, è nel progetto “Le porte di Milano”, ma già un futuro lavoro sul “Senso dell’azzurro” lo spinge altrove. Tiberio amava i grandi fotografi francesi e per entrare in Scuola Civica a Milano lasciò Taurianova, dove era nato nel 1968, e rimase fino al 1994. “In Calabria lavoravo nel negozio di famiglia, fotografavo matrimoni e cronaca, ma volevo di più. Lasciare terra e affetti non fu facile, e per pagarmi le scuole serali, collaborai con Il Corriere, La Repubblica, Il Giorno; con un’amica facevamo foto ai matrimoni, poi sono venuti i primi progetti.” La concorrenza e il digitale l’hanno spinto a sperimentare la fotografia sociale, come autore di progetti: “Ho conosciuto un missionario catanese, don Carmelo La Rosa. In Albania abbiamo tenuto corsi di fotografia per ragazzi e progetti sulla realtà albanese.” Si emoziona parlando di “Cuore a sud”, teatro- canzone con Lello Naso e Nino Forestieri, sui tanti ragazzi che lasciano la Calabria, fotografati senza filtri, davanti casa: “Mi sono rivisto, in quei volti di ragazzi che lasciano la Piana per studiare e lavorare, soffrendo in silenzio. Quando torno a Pasqua, ci sto male. Poi vedo altri giovani sui macchinoni, il mare abbandonato… Amaro e dolce si confondono. Restano i ricordi, i nipoti, le fotografie; eppure, mi sento fortemente calabrese, non dimentico questa terra bella e aspra come il suo Monte, e i volti di donna olivastri, dalla bellezza acerba, che resta in mente.”

GIANLUCA IOVINE