Dieci minuti di ritardo in un Sabato Santo di sole a Piazza dei Martiri. Istintivamente, Pietro mi porta subito a prendere il caffè in libreria. Così, mentre i clienti cercano tra biografie di attori e manuali di sceneggiatura, lentamente comincia la scoperta. Raramente si va oltre la firma di un articolo. Spesso i giornalisti non hanno volto, se non per le persone di un quartiere che Pietro frequenta da sempre, da quando, ventiduenne, varcò per la prima volta la soglia de "Il Mattino" di Napoli, in via Chiatamone, 65. Più interessante dell'intervista è il racconto di un giornalista che non ha mai voluto essere prigioniero della pagina, vivendo da inviato, e scrivendo di cultura, spettacoli, cronaca. Rivela furbizie, piccoli grandi segreti, con l'inevitabile cinismo di chi ne ha viste tante: di ogni evento sa che esistono regole, ruoli, scalette. Poi però l'emozione che cerca di stemperare nel suo humour anglo napoletano riaffiora. Con lui il discorso diventa una barca da regata, segue una rotta precisa, sconosciuta solo a chi l'ascolta, mentre traccia un quadro capillare e preciso dell'informazione futura tra carta stampata e web, ricostruisce gli scenari di crisi dell'editoria, e del giornale per il quale scrive da sempre, uno dei simboli della città. Racconta la necessità di avere responsabilità e volti dietro le informazioni e le storie date a chi legge. Pietro non crede alle notizie di seconda mano, alla retorica, ai complotti. Sa che le cose viste a pochi metri di distanza sono sempre diverse, e quelle sì, vere. E quando ha voglia di costruire un gioco di specchi semina indizi per ritrovarlo nascosto sotto altre spoglie, come ogni vero esoterista.
È ancora possibile salvare “Il Mattino”?
Sicuramente, è possibile. È un secolo della Storia di Napoli, a patto che non lo si riduca a un foglio locale. Serve la collaborazione di tutti: giornalisti, azienda, lettori, e aggiungo anche di chi non lo legge, ma gli riconosce comunque un ruolo istituzionale di collegamento tra Napoli e le fonti istituzionali e internazionali, oltre che tra i centri decisionali del Paese. “Il Mattino” non è solo Napoli e la Campania. È tutto il Centro Sud. Ha una vocazione che da sempre, dai tempi di Matilde Serao che non per niente andò vicinissima al Nobel poi vinto dalla Deledda, va oltre i suoi limiti regionali, geografici.
Rifaresti il giornalista?
Sì, assolutamente, anche se tutto nacque per caso. Ho vinto uno dei pochi concorsi, con una borsa di studio negli anni Ottanta, entrando dalla porta principale. Sono entrato in questo mestiere vergine, ma non cambierei niente, perché coincide con la parte più lunga della mia vita. Non so fare altro, mi piace moltissimo essere un mediatore dell’informazione. Consente di essere in luoghi dove puoi testimoniare la vita, in una città tra le più esaltanti e complesse, come Napoli. Pensa soltanto a cosa può rappresentare raccontare una storia simbolo come quella dei rifiuti. Perché i giornali del mondo ne hanno parlato? Perché era Napoli. In altre città, e penso soprattutto a Torino e Milano, avrebbe avuto un minore impatto mediatico.
È ancora un lavoro per giovani?
La professione sta cambiando e cambierà molto, per gli strumenti che conosciamo, e cioè la Rete, i blog, la tv, e la carta stampata, che vanno verso l’integrazione, ma ci sarà bisogno sempre dei giovani e di un occhio giovane sulle cose. Avranno però sempre maggiori difficoltà, che peraltro esistono anche in altri settori lavorativi. Il giornalismo italiano ha però lo storico handicap di non aver mai creato vie d’accesso alla professione regolate ed ufficiali. Del resto Enzo Biagi alla domanda su come diventare giornalisti rispondeva che servono delle conoscenze. E in fondo è vero.
Come vivi il tuo impegno politico?
Un giornalista non deve mai, in assoluto, sovrapporre idee politiche o religiose e professione. Sono sempre e comunque difficili da nascondere agli occhi del lettore più attento. Io cerco di essere sempre neutrale, e credo che esserlo sia la regola, tranne che nel giornalismo schierato.
I racconti di un giornalista: le interviste più strane, difficili, i momenti più imbarazzanti…
Scrivere per la pagina Spettacoli ti porta sempre in vetrina, incontri tantissime persone. Ma se devo ricordare un aneddoto preciso non riesco. Difficile è stato intervistare Woody Allen, prima di prendere l’aereo, seduto nella hall perché non avevo una stanza, con il computer sulle gambe. È un lavoro che deve trovarti sempre pronto, come quando mi trovavo a Euro Disney, con il cappellino di Pippo in testa, senza penna ne’ taccuino, e mi dissero che lì a Parigi c'era da lavorare, perché era morta Lady Diana. Ho intervistato tanti attori e scrittori, ma ricordo l’intervista a Palermo e i ringraziamenti, cosa rara, di Attilio Bertolucci, o mi rivedo con Claudio Magris, al Salone del Libro di Torino, nello sgabuzzino della Garzanti. In realtà credo di aver scritto molto spesso in condizione strane, di fortuna. Recentemente è stato difficile entrare in sintonia, conquistandone la fiducia e garantendone l'anonimato, con i ragazzi che facevano i raid contro i Rom a Ponticelli, ma complicato è stato intervistare senza appuntamento, nel backstage di un raduno di italoamericani Robert De Niro: giusto due battute, a Washington. Parecchie volte mi sono infilato, infiltrato lì dove non potevo entrare. La prima regola in questi casi è togliere il badge e travestirsi da turista, per passare inosservato. A Sanremo le interviste sono spesso improvvisate, fatte in corsa. È stata divertente quella a Bono degli U2, che è arrivato alle dieci di sera in sala stampa, quando tutti avevano sbaraccato. Così, in piedi sul bancone, dettando a braccio dal telefonino un sessantina di righe precise, grazie alla bravura del collega in redazione. Ho un bel ricordo dell’intervista a Meryl Streep, seguita nella sua visita agli Scavi di Pompei. Non voleva giornalisti, sono riuscito a intrufolarmi. E in pizzeria mi sono finto turista, mentre c’era la cena riservatissima tra le signore Zapatero e Prodi…
Alcuni sono veri e propri scoop…
A volte li ho cercati, come quando ho rincorso Mario Vargas Llosa, all’epoca candidato alla presidenza del Perù, conosciuto a un premio letterario a Scanno, ed entrando a un pranzo riservato. Lui deve avermi confuso con il presidente che gli consegnò il premio, ma non facemmo la passeggiata che volevamo fare; furono chiacchiere in poltrona, solo che alla conferenza stampa dell'indomani vide troppa folla e la disertò, e io mi ritrovai con l’unica intervista concessa.” Il succo di questo lavoro è semplice: fare la domanda giusta, quella che tutti i lettori vorrebbero fare. Bonanni, Epifani e Angeletti erano stati in Curia. Avevo chiesto al Cardinale se la Chiesa avrebbe appoggiato lo sciopero. Rispose che la Chiesa avrebbe fatto la sua parte. Epifani mi disse che era proprio quello che avrebbero voluto chiedergli e non erano riusciti a sapere. La mattina dopo era il titolo dell’articolo. Era bastata una sola domanda precisa, diretta.
Ti vediamo spesso in Rete. Com’è la vita ai tempi di Facebook?
Ah, è una vita caotica! Però ti consente di conoscere molte persone, stabilire relazioni virtuali, che possono trasformarsi persino in notizie, ma rappresenta comunque una piccola parte della mia vita. Ho ritrovato vecchi compagni di scuola, e una cugina americana che non sapevo di avere, e ci scambiamo video musicali: le ho mandato il video di ‘O Scarrafone, che lei non conosceva.
Rivivrà il tuo Commissario Ascione?
C’è un’idea, e sono partito dalla fine, perchè ti posso anticipare il titolo: “Non ho detto abbastanza” il terzo di una “trilogia delle negazioni”. C’entra Napoli, c’entra Sartre, sarà difficile costruirlo, ma ho un’idea precisa. Diciamo che ci sarà dentro una città diversa, che spesso non viene raccontata. Tutto parte da questo verso di “Losing my religion” dei R.E.M., come “Non sono mai partito” prendeva da Tom Waits, e il mio primo romanzo si intitolava “Non lo chiamano veleno” citando "La Gaia Scienza" di Nietzsche.
Informazione, dolore, etica. Quanto il sisma in Abruzzo è racconto e quanto invece mera speculazione? Che idea ti sei fatto?
Da spettatore temo la retorica, mi fa paura. Ho sofferto, come tantissimi, ma la retorica mi fa soffrire ancora di più, con quel suo misto di ingenuità e banalizzazione. Il dolore è fortissimo, ma vorrei che ci fosse, e so già che purtroppo non ci sarà, la stessa attenzione per la ricostruzione. Mi auguro che gli strumenti di nuova informazione che nell’80 non c’erano, tengano alta l’attenzione sui temi della ricostruzione e nella individuazione delle responsabilità. Ricordo bene il 23 novembre 1980, in quei giorni ho vissuto per un periodo fuori casa, avevo ventun anni, e anche se non ho perso nessuno è stata dura, posso comprendere cosa si prova.
Marco Risi ha saputo raccontare Siani in “Fortapasc”? Tu lo conoscevi, Giancarlo?
Non l’ho ancora visto, il film, ma voglio vederlo. Giancarlo e io eravamo entrambi abusivi. Troppi ne hanno parlato, e anche chi non lo conosceva bene oggi dice il contrario. Io no, non l’ho conosciuto a fondo. Parlavamo delle assunzioni, del nostro futuro, a mensa. Era un ragazzo di 26 anni simpatico e disponibile. Ignoravo che si fosse occupato di Torre Annunziata, perché di solito scriveva di traffico, qui a Napoli. Anche il pezzo che si dice l’abbia condannato uscì nelle pagine locali di Castellamare. Il giorno della sua morte non ero in redazione. La mattina seguente sentì alla radio che avevano assassinato un giornalista ed ero incredulo: avrei detto di altri, ma non avrei mai immaginato si trattasse di lui; solo dopo ne è venuta un’immagine più ricca, e abbiamo saputo tutti chi davvero era Giancarlo Siani. Ho sempre immaginato, pensando a lui, oggi, che cosa avrebbe fatto: sarebbe stato un giornalista anonimo come tanti, o sarebbe stato un ottimo cronista come giù era, o chissà… forse sarebbe diventato direttore…! Chissà. Mi sarebbe piaciuto parlargli da coetaneo, come si fa tra colleghi, quando si parla dei film visti, dei libri letti, dei figli a scuola. Ci hanno tolto concretamente un amico della quotidianità, purtroppo. Questa è la verità, oltre la tanta inevitabile retorica. E invece lui era tutto il contrario di un eroe, aveva solo un incredibile accanimento sulla notizia. Questa è la realtà, che spesso viene mescolata alla fantasia.
BEPPE GRILLO, SAGGEZZA E FOLLIA
Questo 23 febbraio Beppe Grillo porta in scena “Delirio” al Teatro Augusteo di Napoli. I ragazzi del Meetup preparano i banchetti per informare e autofinanziarsi vendendo libri. Il pubblico è eterogeneo: non ci sono solo ambientalisti della prima ora e anticasta arrabbiatissimi, ma anche tanta gente comune che ha voglia di trascorrere due ore di intrattenimento. Le persone più agiate nel chiuso delle loro coscienze vivranno un bel conflitto tra il lusso immotivato di una pelliccia nell’inverno napoletano e l’obbligo morale di salvare un pianeta in agonia e la sua natura. Quando Beppe Grillo arriva è tardi: l'intervista sembra già sfumata, ma Roberto Fico e Marco Savarese del Meetup Napoli ci aiutano molto. Più delle domande –da fare in fretta prima che la voce dell’Augusteo chiami l’ingresso in scena – ci interessa osservare da vicino la persona, amato da molti, ma anche molto avversato. Alla porta non ci sono gorilla ne' guardie del corpo. Il segreto di Beppe Grillo è nella sua normalità: ascolta i due ragazzi che per aver denunciato le discariche di camorra hanno ricevuto minacce di morte, e consiglia di non scegliere il silenzio: sarebbe pericoloso, perché isolarsi farebbe il gioco di chi li ha minacciati. Dopo pochi minuti si lascia intervistare senza finzioni, con semplicità. Davanti allo specchio illuminato, nel camerino dietro il boccascena, ci sono una bottiglia di integratore, acqua, biscotti, balsamo. Beppe è un signore di sessant’anni, in forma, diverso dal giovane comico che Pippo Baudo lanciò a metà anni Settanta, ma ha un lampo negli occhi che rivela grande vivacità e una insopprimibile voglia di scoprire. Ad ascoltarlo si crea un bel corto circuito tra il tono oltranzista degli affondi e la sostanza limpida dei messaggi. Entriamo, Beppe legge sul giornale e cerchia le notizie che possono aiutarlo a trovare nuovi spunti. Il suo è uno spettacolo costantemente in progress.
A pochi giorni dalla riunione di Firenze per la Lista Civica Comuni a 5 Stelle gli chiediamo che sensazioni ha, cosa pensa potrà succedere dopo l’8 marzo.
Non lo so, sono curioso anch’io di sapere cosa succede, quanta gente viene. Ci saranno proposte, controproposte, gente incazzata. Sarà il primo impatto con movimenti che cercano un contatto tra loro. Penso che ne usciremo con direttive più chiare. Io riceverò i ragazzi alle 10,00 e chiuderò. Si finirà a sera inoltrata.
Beppe parla spesso della sua famiglia. Giusto chiedergli come vivono la rivoluzione che ha iniziato.
Sono tutti abbastanza sul chi va là. Sai, ho mia moglie iraniana, è una signora dell’altra parte politica, piena di voglia di vivere, che mi dice: “Chi te lo fa fare?” Come pensare, a volte, che non abbia ragione lei? Poi vedo mio figlio piccolo, che condivide quello che faccio. Penso di essere un esempio positivo, per lui.
E allora è il caso di tornare indietro almeno all’inizio dell’avventura del suo Blog. Ecco il suo ricordo.
Era il gennaio 2005. Avevo letto un libro di Casaleggio. Il titolo credo fosse “Morto il web, viva il web”. Ho visto tra le righe che era una persona da conoscere. Ho capito le sue strategie di rete. Abbiamo fatto un blog nuovo, artigianale, con la mia faccia. Così via via, da un commento a dieci, venti, cento, tremila... E poi gli accessi, prima dieci poi su fino a trecentomila, scalando le più importanti classifiche di settore. E oggi siamo il settimo blog più letto al mondo. Cerchiamo di informare, se non ci bloccano prima. Se mi chiudono il blog, me ne vado in Australia e vi lascio in compagnia del mio ologramma! Temo che Berlusconi voglia comprare la dorsale di Telecom per passare a un regime di tipo argentino, militarizzando il Paese. Abbiamo già più corpi militari della Bolivia, credo. E rischiamo davvero di fare la fine dell’Argentina. Non quella delle pentole in strada, eh, ma quella dei Colonnelli!
Suona il telefono, lo cerca una ragazza ucraina che non è riuscita a entrare. E l’intervista continua, per un ultima domanda. Beppe non rinuncia mai al gusto della battuta. Ma dentro si nasconde sempre un retrogusto amaro. Una grossa trasformazione nel tempo, da comico in attivista, no?
È stata la mia evoluzione come persona. Non potevo stare lì a fare “Te la do l’America”, o a dire ”È una cosa pazzesca!” per tutta la vita…! È stato un cambiamento naturale. Così, mi sono buttato in un buco nero entusiasmante. I mondi si cambiano grazie a piccoli gesti, come quella donna nera che un giorno si rifiutò di cedere il posto per il colore della sua pelle. Poi, beh, le cose non sai mai bene dove portano. Ecco, io voglio cambiare il mondo. O almeno cambiare un sistema che in realtà si è già disintegrato da solo. Ho dato un’accelerata a una cosa già segnata.
Fuori i collaboratori guardano l’orologio. Dispiace, ma dobbiamo andare via. Torniamo spettatori. Beppe è mattatore per due ore. Ride, fa pensare, si arrabbia, dà spazio ai ragazzi del Meetup, passa dalla politica all’ambiente, dal web all’economia, tornando pienamente a fare show. Ci si diverte, si pensa. E all’uscita Grillo non si nega alle foto e alle domande della gente. Poi a cena, per una lasagna alla napoletana da “Ciro a Santa Brigida”, e quattro chiacchiere con gli amici parlando di teatro, musica, De Andrè, politica. Poi in auto, nella notte, verso un concerto jazz. Neanche i tanti nemici che si è fatto potranno mai negarne la grande carica umana.
A pochi giorni dalla riunione di Firenze per la Lista Civica Comuni a 5 Stelle gli chiediamo che sensazioni ha, cosa pensa potrà succedere dopo l’8 marzo.
Non lo so, sono curioso anch’io di sapere cosa succede, quanta gente viene. Ci saranno proposte, controproposte, gente incazzata. Sarà il primo impatto con movimenti che cercano un contatto tra loro. Penso che ne usciremo con direttive più chiare. Io riceverò i ragazzi alle 10,00 e chiuderò. Si finirà a sera inoltrata.
Beppe parla spesso della sua famiglia. Giusto chiedergli come vivono la rivoluzione che ha iniziato.
Sono tutti abbastanza sul chi va là. Sai, ho mia moglie iraniana, è una signora dell’altra parte politica, piena di voglia di vivere, che mi dice: “Chi te lo fa fare?” Come pensare, a volte, che non abbia ragione lei? Poi vedo mio figlio piccolo, che condivide quello che faccio. Penso di essere un esempio positivo, per lui.
E allora è il caso di tornare indietro almeno all’inizio dell’avventura del suo Blog. Ecco il suo ricordo.
Era il gennaio 2005. Avevo letto un libro di Casaleggio. Il titolo credo fosse “Morto il web, viva il web”. Ho visto tra le righe che era una persona da conoscere. Ho capito le sue strategie di rete. Abbiamo fatto un blog nuovo, artigianale, con la mia faccia. Così via via, da un commento a dieci, venti, cento, tremila... E poi gli accessi, prima dieci poi su fino a trecentomila, scalando le più importanti classifiche di settore. E oggi siamo il settimo blog più letto al mondo. Cerchiamo di informare, se non ci bloccano prima. Se mi chiudono il blog, me ne vado in Australia e vi lascio in compagnia del mio ologramma! Temo che Berlusconi voglia comprare la dorsale di Telecom per passare a un regime di tipo argentino, militarizzando il Paese. Abbiamo già più corpi militari della Bolivia, credo. E rischiamo davvero di fare la fine dell’Argentina. Non quella delle pentole in strada, eh, ma quella dei Colonnelli!
Suona il telefono, lo cerca una ragazza ucraina che non è riuscita a entrare. E l’intervista continua, per un ultima domanda. Beppe non rinuncia mai al gusto della battuta. Ma dentro si nasconde sempre un retrogusto amaro. Una grossa trasformazione nel tempo, da comico in attivista, no?
È stata la mia evoluzione come persona. Non potevo stare lì a fare “Te la do l’America”, o a dire ”È una cosa pazzesca!” per tutta la vita…! È stato un cambiamento naturale. Così, mi sono buttato in un buco nero entusiasmante. I mondi si cambiano grazie a piccoli gesti, come quella donna nera che un giorno si rifiutò di cedere il posto per il colore della sua pelle. Poi, beh, le cose non sai mai bene dove portano. Ecco, io voglio cambiare il mondo. O almeno cambiare un sistema che in realtà si è già disintegrato da solo. Ho dato un’accelerata a una cosa già segnata.
Fuori i collaboratori guardano l’orologio. Dispiace, ma dobbiamo andare via. Torniamo spettatori. Beppe è mattatore per due ore. Ride, fa pensare, si arrabbia, dà spazio ai ragazzi del Meetup, passa dalla politica all’ambiente, dal web all’economia, tornando pienamente a fare show. Ci si diverte, si pensa. E all’uscita Grillo non si nega alle foto e alle domande della gente. Poi a cena, per una lasagna alla napoletana da “Ciro a Santa Brigida”, e quattro chiacchiere con gli amici parlando di teatro, musica, De Andrè, politica. Poi in auto, nella notte, verso un concerto jazz. Neanche i tanti nemici che si è fatto potranno mai negarne la grande carica umana.
ZORAMA, IL SUONO DEL VENTO
Pochi giorni a Natale. Oggi Napoli ha un cielo nascosto da vetro e acciaio in Galleria Umberto. Un castello di travi scherma il salotto della città. Zorama arriva silenzioso e sorridente, si siede con la ragazza al tavolino. Dietro di lui niente presepe ne' albero. Solo un immenso cantiere che assomiglia a un presagio di Napoli futura. Una città asfittica, che troppo spesso lascia i giovani dietro le finestre, a sperare.
E infatti Zorama guarda proprio verso l'alto e lo dice.
Sono consapevole che dietro le finestre che ci spiano dall’alto possa nascondersi qualche talento straordinario che non viene fuori per timidezza o per educazione familiare.
Ma lui questa consapevolezza l'ha raggiunta, nonostante il rapporto con le origini sia ricco di sfumature e contraddizioni.
Non mi sento musicalmente legato alla vera melodia Made in Naples. Mi sento figlio di Napoli, ma musicalmente non ho mai ascoltato troppo in napoletano, se non cose molto antiche (Caruso, Carosone, Di Giacomo, Totò). Parafrasando Rino Gaetano, mi sento “figlio unico” di Napoli, uno dei suoi tanti “figli unici”. Background e vissuto non mi hanno mai dato l’approccio viscerale con la città, che altri come Osanna, Gragnaniello, Cercola hanno. Mi sento quasi ridicolo a parlare in dialetto.
Il discorso scivola su un luogo lontano, apparentemente opposto nell'immaginario al confuso e caldo Mediterraneo di Napoli: la Finlandia, dove Zorama è molto apprezzato.
Helsinki ha saputo darmi opportunità e consacrazioni che Napoli non mi ha dato, ridandomi lo spunto compositivo perso. Napoli è satura, piena di un’identità musicale che mi appartiene poco. Tramite un amico napoletano in Finlandia, dal 2001 ho conosciuto questa realtà. Tutto è nato da un concerto nel suo locale. Mi notarono degli impresari, così feci quattro concerti, a Kerkonkoski, Helsinki, Kuopio e Savonlinna. Ho ancora qualche manifestino... Tornato in Italia, ecco la prospettiva dell’Accademia di Sanremo, dove su 360 finalisti arrivai tra i primi 60. Beh, poi là dopo sono altri cazzi…
Su quell'intercalare Zorama si ferma a discutere. Le parole hanno un valore. Tutte.
Ho i pensieri a raffica, proprio come il vento: se sto male come un cane, non uso belle parole… dico: “Cazzo, sto proprio male!” Io sono spontaneo e vero. Con tutti, anche con i genitori della mia ragazza. E non sono reputato volgare: se dico cazzo, suona in una maniera o in un'altra a seconda del tono… Le parole sono importanti, ma passano inevitabilmente attraverso dei filtri. E sono felice che a volte questi filtri cadano. Questo però non vuol dire eccedere.
Nello sguardo nasconde una rabbia antica, che esprime nella sua musica.
In “Cerchi e semicerchi”, un giornalista disse che avevo espresso una rabbia emotiva vera, sentita, non cantata. Come se il mio vissuto si fosse espresso in parole e musica, come se quello che ho nelle viscere venisse fuori nelle mie canzoni. Quando scrivo per me non riesco a scrivere a tavolino. Nei miei pezzi non parlo mai di una cosa sola . Voglio lasciare la possibilità a chi mi ascolta di farsi un’idea propria del significato del brano.
Il tema del vento ricorre nelle canzoni e nei gesti di Zò.
È l’elemento che più mi caratterizza; amo il mare, adoro la montagna, mi piace il fuoco di un camino, ma nel vento mi trovo a mio agio: è quasi come un complice, che mi spinge a OSARE. E anche quando vado controvento, è proprio il vento a dirmi che sto sbagliando strada.
Ma i rumori della città porosa irrompono. Si gira. Poi torna a parlare, quasi con rassegnazione.
Per questo ho preso un monolocale a Sirignano. In Irpinia, cioè quasi in Irlanda. Le volte che non suono e non vivo il caos dei night e dei pub, mi piace rifugiarmi, e starmene in silenzio. Sfuggo i luoghi frequentati, mi piace mangiare bene, bere del buon vino, possibilmente rosso: Nero d’Avola, Chianti, o un Cabernet Sauvignon.
Musica rarefatta, essenziale quella del nostro cantautore. Ma l’accenno al vino riporta alla terra. E all’idea che anche un piatto possa assomigliare a una canzone. Zorama ha le idee molto chiare.
Scialatielli con crema di porcini, funghi porcini e una spolverata di tartufo, da mangiare in certe trattorie dell’Avellinese e del Beneventano, dove si mangia e si beve bene. Come “La Taverna del Gusto”, a Sirignano, dove Pasquale, chef e proprietario di 22 anni, la fa da padrone.
Gli chiediamo cosa prova un ragazzo semplice e in fondo timido come lui a cantare in piazza, tra la gente. La risposta è sorprendente.
Allo stesso tempo un senso di solitudine e onnipotenza. Solitudine perché la maggior parte di chi è in piazza se ne frega di chi sei, di cosa suoni. Ti senti solo, in mezzo a migliaia di loro. Ma al primo giro di chitarra divento Zorama: mi si materializza un mantello con i superpoteri, e mi sento una rockstar. E in quel momento mi sento, con tutto il rispetto, quasi Gesù Cristo…
Scalpita, ha freddo. Così abbandoniamo la Galleria e dopo le prime foto, completiamo l’intervista a ridosso di Palazzo Reale e Piazza Plebiscito. Al Porto le navi da crociera, le gru, le isole in lontananza, e poi i palazzi su via Acton, il Vesuvio. Non è ancora venuto fuori il discorso sulla nascita del suo nome d’arte. È tempo di sapere.
Io sono Mariano Rongo. Mia madre fa di cognome Zora, Ho preso il suo cognome e a quel cognome ho aggiunto Ma di Mariano. Era uno pseudonimo già dichiarato in SIAE. E ho deciso nel 2000 di farlo divenire il mio nome.
Ci siamo dati una regola. Solo dieci domande. Libere, aperte. Ma abbiamo due curiosità. Sapere se ha una canzone, tra quelle che ha scritto, che ama più di altre, e se ci sono nuovi progetti a cui sta lavorando.
Difficile dirlo. Non ce la faccio! Perché non penso ce ne sia una migliore di un’altra. Posso dirti i tre titoli ai quali sono più legato: “In clandestinità” e “Il tuo arredamento”, perché sono brani – dedica nati molto spontaneamente, nei quali vedo il mio sguardo riflesso, da essere umano innamorato. Il terzo titolo è “Alter Ego”, che descrive il contrasto delle mie due anime, nel duello tra me e il mio ego, quasi un mio termometro esistenziale. Poi ci metterei “Frequento il vento”: non posso farne a meno, mi rispecchia molto . È la canzone manifesto del mio vivere.
Il cielo è blu cobalto, una delle poche ricchezze che a Napoli nessuno può sottrarre. E le canzoni che raccontano Zorama sappiamo che ora sono almeno quattro. Fa sempre più freddo, si parla camminando lungo la grande piazza.
Sto preparando un nuovo disco, ma non sarà più un concept album. È un lavoro più variegato, con alcune cover, e brani miei nuovi; vorrei e dovrei proseguire la collaborazione con i Lost Dream. Tra le cover ci sarà il De Andrè de “La Guerra di Piero”, i Muse, e altri. E poi, una cover di Aldo Granese, un cantautore di Avella che a mio avviso ha scritto uno dei brani più invidiabili degli ultimi dieci anni: “Il Diavolo nero”. Sto organizzando un festival cantautorale a Sirignano, in provincia di Avellino, in giugno. Ah, e poi una cosa, quest’estate in Finlandia, una cosa importante, che non dico per scaramanzia.
L’artista abbraccia con dolcezza la sua ragazza, saluta, e torna a frequentare il vento.
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