PIETRO TRECCAGNOLI, VITA DA GIORNALISTA

Dieci minuti di ritardo in un Sabato Santo di sole a Piazza dei Martiri. Istintivamente, Pietro mi porta subito a prendere il caffè in libreria. Così, mentre i clienti cercano tra biografie di attori e manuali di sceneggiatura, lentamente comincia la scoperta. Raramente si va oltre la firma di un articolo. Spesso i giornalisti non hanno volto, se non per le persone di un quartiere che Pietro frequenta da sempre, da quando, ventiduenne, varcò per la prima volta la soglia de "Il Mattino" di Napoli, in via Chiatamone, 65. Più interessante dell'intervista è il racconto di un giornalista che non ha mai voluto essere prigioniero della pagina, vivendo da inviato, e scrivendo di cultura, spettacoli, cronaca. Rivela furbizie, piccoli grandi segreti, con l'inevitabile cinismo di chi ne ha viste tante: di ogni evento sa che esistono regole, ruoli, scalette. Poi però l'emozione che cerca di stemperare nel suo humour anglo napoletano riaffiora. Con lui il discorso diventa una barca da regata, segue una rotta precisa, sconosciuta solo a chi l'ascolta, mentre traccia un quadro capillare e preciso dell'informazione futura tra carta stampata e web, ricostruisce gli scenari di crisi dell'editoria, e del giornale per il quale scrive da sempre, uno dei simboli della città. Racconta la necessità di avere responsabilità e volti dietro le informazioni e le storie date a chi legge. Pietro non crede alle notizie di seconda mano, alla retorica, ai complotti. Sa che le cose viste a pochi metri di distanza sono sempre diverse, e quelle sì, vere. E quando ha voglia di costruire un gioco di specchi semina indizi per ritrovarlo nascosto sotto altre spoglie, come ogni vero esoterista.


È ancora possibile salvare “Il Mattino”?

Sicuramente, è possibile. È un secolo della Storia di Napoli, a patto che non lo si riduca a un foglio locale. Serve la collaborazione di tutti: giornalisti, azienda, lettori, e aggiungo anche di chi non lo legge, ma gli riconosce comunque un ruolo istituzionale di collegamento tra Napoli e le fonti istituzionali e internazionali, oltre che tra i centri decisionali del Paese. “Il Mattino” non è solo Napoli e la Campania. È tutto il Centro Sud. Ha una vocazione che da sempre, dai tempi di Matilde Serao che non per niente andò vicinissima al Nobel poi vinto dalla Deledda, va oltre i suoi limiti regionali, geografici.

Rifaresti il giornalista?

Sì, assolutamente, anche se tutto nacque per caso. Ho vinto uno dei pochi concorsi, con una borsa di studio negli anni Ottanta, entrando dalla porta principale. Sono entrato in questo mestiere vergine, ma non cambierei niente, perché coincide con la parte più lunga della mia vita. Non so fare altro, mi piace moltissimo essere un mediatore dell’informazione. Consente di essere in luoghi dove puoi testimoniare la vita, in una città tra le più esaltanti e complesse, come Napoli. Pensa soltanto a cosa può rappresentare raccontare una storia simbolo come quella dei rifiuti. Perché i giornali del mondo ne hanno parlato? Perché era Napoli. In altre città, e penso soprattutto a Torino e Milano, avrebbe avuto un minore impatto mediatico.

È ancora un lavoro per giovani?

La professione sta cambiando e cambierà molto, per gli strumenti che conosciamo, e cioè la Rete, i blog, la tv, e la carta stampata, che vanno verso l’integrazione, ma ci sarà bisogno sempre dei giovani e di un occhio giovane sulle cose. Avranno però sempre maggiori difficoltà, che peraltro esistono anche in altri settori lavorativi. Il giornalismo italiano ha però lo storico handicap di non aver mai creato vie d’accesso alla professione regolate ed ufficiali. Del resto Enzo Biagi alla domanda su come diventare giornalisti rispondeva che servono delle conoscenze. E in fondo è vero.

Come vivi il tuo impegno politico?

Un giornalista non deve mai, in assoluto, sovrapporre idee politiche o religiose e professione. Sono sempre e comunque difficili da nascondere agli occhi del lettore più attento. Io cerco di essere sempre neutrale, e credo che esserlo sia la regola, tranne che nel giornalismo schierato.

I racconti di un giornalista: le interviste più strane, difficili, i momenti più imbarazzanti…

Scrivere per la pagina Spettacoli ti porta sempre in vetrina, incontri tantissime persone. Ma se devo ricordare un aneddoto preciso non riesco. Difficile è stato intervistare Woody Allen, prima di prendere l’aereo, seduto nella hall perché non avevo una stanza, con il computer sulle gambe. È un lavoro che deve trovarti sempre pronto, come quando mi trovavo a Euro Disney, con il cappellino di Pippo in testa, senza penna ne’ taccuino, e mi dissero che lì a Parigi c'era da lavorare, perché era morta Lady Diana. Ho intervistato tanti attori e scrittori, ma ricordo l’intervista a Palermo e i ringraziamenti, cosa rara, di Attilio Bertolucci, o mi rivedo con Claudio Magris, al Salone del Libro di Torino, nello sgabuzzino della Garzanti. In realtà credo di aver scritto molto spesso in condizione strane, di fortuna. Recentemente è stato difficile entrare in sintonia, conquistandone la fiducia e garantendone l'anonimato, con i ragazzi che facevano i raid contro i Rom a Ponticelli, ma complicato è stato intervistare senza appuntamento, nel backstage di un raduno di italoamericani Robert De Niro: giusto due battute, a Washington. Parecchie volte mi sono infilato, infiltrato lì dove non potevo entrare. La prima regola in questi casi è togliere il badge e travestirsi da turista, per passare inosservato. A Sanremo le interviste sono spesso improvvisate, fatte in corsa. È stata divertente quella a Bono degli U2, che è arrivato alle dieci di sera in sala stampa, quando tutti avevano sbaraccato. Così, in piedi sul bancone, dettando a braccio dal telefonino un sessantina di righe precise, grazie alla bravura del collega in redazione. Ho un bel ricordo dell’intervista a Meryl Streep, seguita nella sua visita agli Scavi di Pompei. Non voleva giornalisti, sono riuscito a intrufolarmi. E in pizzeria mi sono finto turista, mentre c’era la cena riservatissima tra le signore Zapatero e Prodi…

Alcuni sono veri e propri scoop…

A volte li ho cercati, come quando ho rincorso Mario Vargas Llosa, all’epoca candidato alla presidenza del Perù, conosciuto a un premio letterario a Scanno, ed entrando a un pranzo riservato. Lui deve avermi confuso con il presidente che gli consegnò il premio, ma non facemmo la passeggiata che volevamo fare; furono chiacchiere in poltrona, solo che alla conferenza stampa dell'indomani vide troppa folla e la disertò, e io mi ritrovai con l’unica intervista concessa.” Il succo di questo lavoro è semplice: fare la domanda giusta, quella che tutti i lettori vorrebbero fare. Bonanni, Epifani e Angeletti erano stati in Curia. Avevo chiesto al Cardinale se la Chiesa avrebbe appoggiato lo sciopero. Rispose che la Chiesa avrebbe fatto la sua parte. Epifani mi disse che era proprio quello che avrebbero voluto chiedergli e non erano riusciti a sapere. La mattina dopo era il titolo dell’articolo. Era bastata una sola domanda precisa, diretta.

Ti vediamo spesso in Rete. Com’è la vita ai tempi di Facebook?

Ah, è una vita caotica! Però ti consente di conoscere molte persone, stabilire relazioni virtuali, che possono trasformarsi persino in notizie, ma rappresenta comunque una piccola parte della mia vita. Ho ritrovato vecchi compagni di scuola, e una cugina americana che non sapevo di avere, e ci scambiamo video musicali: le ho mandato il video di ‘O Scarrafone, che lei non conosceva.

Rivivrà il tuo Commissario Ascione?

C’è un’idea, e sono partito dalla fine, perchè ti posso anticipare il titolo: “Non ho detto abbastanza” il terzo di una “trilogia delle negazioni”. C’entra Napoli, c’entra Sartre, sarà difficile costruirlo, ma ho un’idea precisa. Diciamo che ci sarà dentro una città diversa, che spesso non viene raccontata. Tutto parte da questo verso di “Losing my religion” dei R.E.M., come “Non sono mai partito” prendeva da Tom Waits, e il mio primo romanzo si intitolava “Non lo chiamano veleno” citando "La Gaia Scienza" di Nietzsche.


Informazione, dolore, etica. Quanto il sisma in Abruzzo è racconto e quanto invece mera speculazione? Che idea ti sei fatto?

Da spettatore temo la retorica, mi fa paura. Ho sofferto, come tantissimi, ma la retorica mi fa soffrire ancora di più, con quel suo misto di ingenuità e banalizzazione. Il dolore è fortissimo, ma vorrei che ci fosse, e so già che purtroppo non ci sarà, la stessa attenzione per la ricostruzione. Mi auguro che gli strumenti di nuova informazione che nell’80 non c’erano, tengano alta l’attenzione sui temi della ricostruzione e nella individuazione delle responsabilità. Ricordo bene il 23 novembre 1980, in quei giorni ho vissuto per un periodo fuori casa, avevo ventun anni, e anche se non ho perso nessuno è stata dura, posso comprendere cosa si prova.

Marco Risi ha saputo raccontare Siani in “Fortapasc”? Tu lo conoscevi, Giancarlo?

Non l’ho ancora visto, il film, ma voglio vederlo. Giancarlo e io eravamo entrambi abusivi. Troppi ne hanno parlato, e anche chi non lo conosceva bene oggi dice il contrario. Io no, non l’ho conosciuto a fondo. Parlavamo delle assunzioni, del nostro futuro, a mensa. Era un ragazzo di 26 anni simpatico e disponibile. Ignoravo che si fosse occupato di Torre Annunziata, perché di solito scriveva di traffico, qui a Napoli. Anche il pezzo che si dice l’abbia condannato uscì nelle pagine locali di Castellamare. Il giorno della sua morte non ero in redazione. La mattina seguente sentì alla radio che avevano assassinato un giornalista ed ero incredulo: avrei detto di altri, ma non avrei mai immaginato si trattasse di lui; solo dopo ne è venuta un’immagine più ricca, e abbiamo saputo tutti chi davvero era Giancarlo Siani. Ho sempre immaginato, pensando a lui, oggi, che cosa avrebbe fatto: sarebbe stato un giornalista anonimo come tanti, o sarebbe stato un ottimo cronista come giù era, o chissà… forse sarebbe diventato direttore…! Chissà. Mi sarebbe piaciuto parlargli da coetaneo, come si fa tra colleghi, quando si parla dei film visti, dei libri letti, dei figli a scuola. Ci hanno tolto concretamente un amico della quotidianità, purtroppo. Questa è la verità, oltre la tanta inevitabile retorica. E invece lui era tutto il contrario di un eroe, aveva solo un incredibile accanimento sulla notizia. Questa è la realtà, che spesso viene mescolata alla fantasia.

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